Dalla corsa alla bicicletta, Michael Woods non conosce vie di mezzo.
Di corsa sempre, ovunque, dovunque. Di corsa nella sua mente, Michael Woods: a inseguire i propri sogni, a volerli a tutti costi, a doverli addirittura cambiare in corso d’opera. Gli inverni gelidi dell’Ontario, immoti di neve, fermi negli anni Novanta come i suoi propositi di bambino: ala sinistra, il disco che corre sul ghiaccio, l’asta in aria come trofeo di fronte al pubblico impazzito dei Toronto Leaf. Ecco il suo primo sogno che prende vita nella sua mente: l’hockey. Eppure Rusty (così lo chiamavano da ragazzo per i capelli rossicci, rugginosi appunto) ricorda ancora il momento preciso – un’asettica aula di matematica della sua adolescenza – in cui realizzò l’impossibilità del suo anelito d’infanzia. Nessun impedimento, tranne un fisico mingherlino a impedirgli di giganteggiare nel ghiaccio come si conviene a un grande divoratore di fascia.
Fu dura da digerire, ricorda ancora oggi, e ancor più lunga perché i sognatori procrastinano fino all’inverosimile le proprie speranze. Ma lo sport era nel suo DNA e nell’arco di un anno Michael crebbe di statura e perse quindici chili. Lo sguardo altrove, di corsa, stavolta letteralmente. Via i pattini da hockey per le più leggere scarpette da runner. “Un talento naturale“, “la più grande promessa del mezzofondo canadese“, iniziano a titolare i giornali della sua Ottawa dopo aver vinto l’oro tra gli juniores ai Giochi Panamericani. «Ho corso un miglio in 3:57 quando avevo diciotto anni, il miglior tempo al mondo per uno juniores. Ho stabilito anche il record canadese, che peraltro possedevo già da juniores nei Tremila. Ero considerato il prossimo grande mezzofondista ed ero davvero concentrato per andare alle Olimpiadi».

Woods ha ormai fatto capolino fra i cinquanta atleti più forti del mondo nella sua specialità. Giunge anche una borsa di studio alla Michigan University, dove studia letteratura inglese, la sua passione. Se le porte di ghiaccio dell’Air Canada Centre di Toronto si sono inesorabilmente chiuse, sono adesso le ellissi di tartan a mostrarglisi innanzi. Eppure passione e volontà lo fanno strabordare. Una cattiva alimentazione e un sovraccarico di allenamenti fanno deragliare Rusty, che va incontro a una frattura cronica da stress al piede. «Ho fatto due operazioni, nel 2008 e nel 2010, ma ho finito per rompere di nuovo il piede nella mia prima gara nel 2011». Ciò che appariva come un futuro già scritto nell’Olimpo dell’atletica, lascia invece improvvise pagine bianche, vergate solo dall’esser divenuto un “personaggio triste”. «Ero riuscito a rovinare la mia carriera sportiva. La classica storia del giovane quarterback triste che si infortuna gravemente pochi giorni prima della chiamata dei club professionistici».
Gli anni successivi li impiega dirigendo mestamente il reparto di scarpe sportive di un grande magazzino di Ottawa, scrutando i piedi di altri; lui che non può più usare i propri per correre, che li sente fremere, quasi volare via: “ancora un sogno, ancora uno“, sembrano chiedergli. È così che piomba come un angelo in questa storia il mezzo catartico per eccellenza, un vecchio strumento di fatica che prende i piedi rotti di Rusty e li aggancia ai pedali che escono dal suo esile corpo, come a fasciarli. Michael va: all’inizio per riabilitarsi, poi per passione; infine, pian piano, la corsa si insinua di nuovo: contro il tempo, soprattutto, adesso che le lancette segnano venticinque anni.
In Canada il ciclismo, se togliamo lo sgraziato ma efficiente Hejsedal, non gode ancora dell’amore del grande pubblico. Eppure, come ovunque, questa poesia fatta di strade e manubri sta inesorabilmente crescendo; le due prove canadesi del World Tour lo dimostrano. Qualche vittoria nelle corse locali, la vicinanza degli amici che lo spingono a provarci ancora, la costanza del coach Paulo Saldhana bastano dopo qualche anno a tirar fuori dal cilindro un nuovo sogno. «Quando la mia carriera ha iniziato a naufragare, ho iniziato a pedalare perché avevo bisogno di allenarmi, e così durante i miei lunghi periodi di infortunio andavo in bici. Dapprima con gli amici; poi, lentamente mi sono innamorato di questo sport».

Così Woods inizia a guidare quello strano cavallo di carbonio. Un’epopea più unica che rara. E così, dopo un grande piazzamento all’Algarvedel 2015 dietro i migliori, viene annunciato per il 2016 l’imminente passaggio alla Cannondale. Inizia incollato a Porte al Down Under, è scatenato sulle Ardenne, si piazza alla Milano-Torino. Ma è a Rio che incredibilmente giunge Rusty. Lo aspettavano tutti mezzofondista e invece arriva con la Maple Leaf bianco-rossa, la bandiera canadese, in sella a una bici.
Il 2017 lo vede settimo alla Liegi e nella generale della Vuelta, vincitore nella nebbia che avvolge il traguardo dell’Alto del Balcón de Bizkaia. Le dita al cielo, il pianto dirotto piegato in due sulla canna della bici. Lacrime copiose, forse troppo perché dietro ci sia solo la gioia per un grande traguardo sportivo, per quanto agognato negli anni. «È difficile da descrivere. C’erano così tante persone sul lato della strada che urlavano. Il mio direttore Juanma (Gárate, ndr) era alla radio e mi ripeteva di farlo per la mia famiglia. Mia moglie ed io abbiamo avuto un bimbo nato morto di trentasette settimane. Si chiamava Hunter. Per tutto il tempo della scalata pensavo a lui; volevo vincere così tanto per lui e l’ho fatto». Sì, c’era decisamente dell’altro in quella grande vittoria in terra iberica.
Il 2018 è l’anno in cui raggiunge due podi in due corse leggendarie. In realtà, fino ad aprile Woods è pittosto anonimo. «Non sono stato eccezionale ai Paesi Baschi e non sono stato eccezionale in ogni gara che ha preceduto la Liegi. Ma poi a Liegi, appena mi sono seduto sulla bici, ho subito pensato: oggi mi sento bene. E all’improvviso mi sono ritrovato sulla ruota di Romain Bardet a lottare per il secondo posto». Dopo un programma studiato un anno e calato in un percorso che gli calza perfettamente addosso, il “neofita” Michael dà un’altra egregia prova di sé ai Campionati del mondo di Innsbruck. «Ho avuto le stesse sensazioni che ho avuto a Liegi. È stata una sorpresa quando sono andato via con Alejandro Valverde e Romain Bardet, ma allo stesso tempo era solo una conferma di tutta la pianificazione. Mi sono sentito davvero bene in salita e ho persino pensato di poter vincere lo sprint, ma Valverde l’ha iniziato presto. Mi sentivo bene, poi ho avuto i crampi».

Il 2019, invece, lo ha celebrato nel trionfo di quella Milano-Torino già carezzata tempo addietro. E poi i piazzamenti di prestigio ancora alla Liegi e al Lombardia, alla Catalunya e al Romandia. Un ragazzo da classiche vallonate e potente nelle corse a tappe, se vogliamo cucirgli addosso alcune evidenti caratteristiche di un corridore giunto tardi ma catapultato subito tra i migliori. Si apre un 2020 che potrebbe consacrarlo con nuovi prestigiosi traguardi, anche se la storia di Woods più che essere una carrellata di risultati (che pure vi sono) è emblematica poiché racchiude insieme tutte le potenzialità benefiche dello sport: il bisogno di non mollare, di crederci sempre, la necessità di coniugare catarsi dell’anima a voracità fisica.
Il generale che divenne schiavo. Lo schiavo che divenne gladiatore. Il gladiatore che sconfisse un impero. Chi non ricorda la mutevole epopea del Gladiatore, il cult ventennale di Ridley Scott? Parafrasando l’epica cinematografica, ne ritroviamo una simile tutta sportiva, fatta di rovesci, ambizioni, tragedie e trionfi: il ragazzino che sognava l’hockey e si ritrovò mezzofondista; che voleva le Olimpiadi a corsa e le raggiunse pedalando; che coi suoi pedali sfidò i grandi del suo tempo. Trentaquattro anni per Michael Rusty Woods, coi capelli di ruggine e i sogni – molti – ancora da acciuffare.
Foto in evidenza: ©Vita Sportiva, Twitter