“La più grande ciclista di sempre” è, nel suo caso, calzante.
Esistono degli atleti e delle atlete per i quali (o le quali) il palmarès restituisce un’idea della loro grandezza ma non scalfisce nemmeno la superficie della loro interpretazione di uno sport che, per gli altri è una cosa, mentre per loro è tutt’altra. L’esempio più lapalissiano è quello di Michael Jordan; un semidio nella memoria collettiva, che ha dominato l’NBA degli anni ’90 ma che non viene ricordato per i sei titoli NBA vinti. Non solo almeno. Nella storia della lega ben 9 giocatori hanno vinto più titoli di lui, in 3 hanno segnato più punti in carriera di Jordan, eppure bisogna raggiungere latitudini inesplorate per imbattersi in qualcuno che non abbia mai sentito parlare del leggendario #23 dei Chicago Bulls, mentre sarebbe più facile ricevere uno sguardo perso, tra coloro che non seguono l’NBA, ai nomi di Bill Russell o Kareem Abdul Jabbar. Entrambi figure mitologiche del gioco ma incapaci di materializzarsi nell’immaginario comune senza un contesto.
Chi scrive si è trovato più o meno nella stessa situazione per questo racconto, dal momento che il ciclismo femminile non gli appartiene quanto quello maschile. Eppure, chiunque segua lo sport delle biciclette sa perfettamente chi sia Marianne Vos; la più grande, forse, una delle più grandi, senza dubbio, ciclista nella storia.
Dei titoli importa relativamente: la mistica di questa ragazza olandese è sicuramente impreziosita da un palmarès sconfinato, ma la vera forza che scatena questo nome tra gli appassionati di ciclismo non è legata a quante volte ha tagliato il traguardo a braccia alzate. Più che il quanto, è il come a caratterizzare questa formidabile atleta olandese, proprio come Jordan non è entrato nella leggenda per i suoi numeri ma per quella aurea aliena che soltanto gli eletti posseggono. Veder pedalare Marianne Vos probabilmente non ha lo stesso effetto che osservare la danza di MJ sul parquet, ma per gli appassionati di ciclismo è una vera delizia.
Londra e le altre
Le vittorie, per Vos, iniziano molto prima dei Giochi Olimpici del 2012, ma in quell’occasione si vede il compendio della personalità di Marianne sui pedali. La gara a cinque cerchi su strada di Londra è un ottimo spot per il ciclismo femminile, molto meno tattico di quello maschile, molto più incerto fin dalle prime pedalate, sicuramente più divertente per un neofita delle due ruote. Nel circuito londinese si scatena una pioggia torrenziale che consegna al quadro un tocco ulteriore di epicità. Ben prima che iniziasse a piovere si era intravisto che le due più in forma fossero Vos e Lizzie Armitstead, beniamina del pubblico inglese. L’olandese fa il diavolo a quattro, continua ad alzarsi sui pedali, vuole scrollarsi di dosso la pesante compagnia dell’inglese. Niente da fare, a giocarsi il podio arrivano in tre: le due favorite più la russa Zabelinskaya. In volata se la giocano più o meno alla pari, Vos lancia un paio di sguardi alla rivale, poi fa esplodere tutti i suoi cavalli. Lancia una volata di quasi 200 metri e in questa foga c’è tutta Marianne Vos, con la sua assoluta avversione alla sconfitta, quasi fosse spinta dalla paura di non vincere, più che dalla voglia di trionfare. Rimane davanti per tutti i 200 metri, diventa campionessa olimpica su strada, si consacra nell’Olimpo dei grandissimi.
Non si tratta del suo primo acuto a cinque cerchi. Bisogna fare un salto all’indietro di quattro anni per trovarci a Pechino 2008, corsa a punti, ciclismo su pista. Preparare due specialità così diverse come il ciclismo su strada e il ciclismo su pista, richiede una dedizione fuori dal normale oltre che una simbiosi, al limite della dipendenza, con la bicicletta. Anche perché né la strada, né la pista, sono il terreno di caccia preferito dell’olandese. Ci arriveremo: rimaniamo a Pechino.
Nel 2008 Marianne ha cominciato a vincere per davvero: quell’anno vince la sua seconda Freccia Vallone, diventa campionessa nazionale su strada e si presenta in Cina forte del titolo iridato conquistato proprio nella corsa a punti. È una gara che non vince: domina. La prima parte gestisce, vorrebbe andare via subito, un minimo di buon senso la fa desistere. Quando vince il sesto sprint (la corsa a punti si basa su un numero prefissato di sprint che assegnano punti ai primi tre, chi colleziona più punti vince) decide che è ora di andare via. Sarebbe anche virtualmente prima, potrebbe anche gestire, la necessità di scrollarsi di dosso la concorrenza non c’è dal punto di vista tecnico. Ecco che ritorna Londra. Quattro anni dopo, su strada, sarà ancora più evidente, ma già a Pechino anche solo la minima possibilità di poter perdere la repelle. Chiude i giochi in anticipo; vince il sesto sprint e continua a tirare. Nella corsa a punti il ciclista (o la ciclista) che doppia il gruppo guadagna 20 punti che in questo caso equivalgono a mettere una lapide sulla competizione. Game, set and match. Non può perdere, per il semplice fatto che non lo sa gestire.
Una volta, da bambina, ha saltato la cerimonia del podio perché era arrivata terza. In famiglia non si potevano tirare fuori i giochi da tavolo perché se Marianne avesse perso sarebbe stata intrattabile per l’intera giornata. Crescendo il problema non si è ridimensionato: dopo il mondiale di Copenaghen (2011), chiuso al secondo posto, ha messo a soqquadro lo spogliatoio, ha lanciato bottigliette d’acqua dappertutto, sul podio si è dovuta scusare con le sue avversarie. È una bad looser; detesta che ci siano persone migliori di lei nel fare il suo lavoro. Queste personalità di solito sono spinte proprio dalla consapevolezza che non esiste altro risultato ammissibile che la vittoria. È un fuoco che brucia, non dà tregua, è senza dubbio un comportamento che nella vita di tutti i giorni può condurre all’eccesso, alla difficoltà di mettere le cose in prospettiva, ma nello sport è una benzina sconosciuta a tutti gli altri.
Strada, pista e anche sterrato, soprattutto sterrato. Nel ciclocross Marianne è stata praticamente imbattibile per sei anni, risultando sempre più difficile racchiudere l’essenza di un’atleta così dominante nel solo palmarès. Il 2012 è l’anno di grazia perché compie un’impresa che verosimilmente non verrà mai replicata: a inizio anno vince, stravince, il mondiale di ciclocross. Sul circuito di Koksijde, Belgio, comanda dall’inizio alla fine, su un terreno sabbioso e impraticabile sia in salita che in discesa. Spesso e volentieri bisogna mettersi la bici in spalla e andare a piedi, il ciclocross ha pochissimo in comune con la strada. Marianne rifila 38’’ alla connazionale Van Den Brand e alla beniamina di casa Cant. A fine stagione si corre il mondiale su strada in casa, a Valkenburg, appuntamento troppo ghiotto per passare la mano.
Nel 2015 Pauline Ferrand-Prévot, vincendo il mondiale di ciclocross, diventerà la seconda ciclista nella Storia a vincere sia il mondiale di ciclocross che quello su strada (vinto un anno prima). La pioniera di questa doppietta – mai realizzata da un uomo – fu proprio Marianne Vos, spingendo i limiti dell’immaginario umano ancora più in là. Sarà doppietta nello stesso anno, impresa che gli era riuscita già nel 2006 e che gli riuscirà di nuovo nel 2012, palesando la sua totale superiorità rispetto al resto del gruppo.
Il 2012 è più dolce perché c’è di mezzo Londra, quella medaglia che torna sempre, perché anche a Valkenburg sembra esserci un momento in cui la paura di perdere prende il sopravvento. Ultimo strappo, Neylan allunga, Vos e Longo Borghini sono le uniche due in grado di reggere il passo. Neanche 100 metri e Vos pianta una rasoiata di intellegibile potenza. È quasi imbarazzante la facilità con la quale lascia sul posto le rivali. Ancora quella irrefrenabile dipendenza dalla vittoria che la consacra regina indiscussa delle due ruote.
Come i maschi, più dei maschi
Per quanto, come detto, la strabiliante carriera di Marianne Vos non sia sintetizzabile con una serie di numeri, è comunque importante sottolineare la mole di successi ottenuti dalla ciclista olandese: quattro volte campionessa nazionale su strada, due volte a cronometro, sei volte nel ciclocross, tre volte campionessa del mondo su strada, sette volte (SETTE) iridata nel ciclocross, mondiale che ha vinto consecutivamente dal 2009 al 2014. Tra gli altri successi vanno annoverati: due medaglie d’oro olimpiche, 5 successi alla Freccia Vallone femminile, 21 tappe al Giro Rosa e tre successi nella generale, solo su strada parliamo di un’atleta da 180 vittorie in carriera, se fosse un ciclista sarebbe dietro al solo Eddy Merckx nella classifica dei più vincenti nella storia.
“Ciclista” in effetti è una parola neutra, che si abbina con l’articolo maschile e femminile, eppure il ciclismo è uno degli sport meno attenti alla cosiddetta gender equality. Fino all’anno scorso non esisteva un sindacato per il ciclismo femminile, falla sanata da Iris Slappendel, Carmen Small e Gracie Elvin, le quali hanno provveduto alla creazione di The Cyclists’ Alliance. Proprio da una ricerca di questa nuova organizzazione, emergono le enormi difficoltà per una ragazza che decide di intraprendere la via del ciclismo: il 50% delle cicliste “professioniste” guadagna meno di €10˙000 l’anno, il 17% non percepisce uno stipendio, il 52% è costretto a fare un secondo lavoro per mantenersi, il 97% delle atlete intervistate è convinta che i salari e i premi in denaro dell’UCI non siano adeguati all’impegno profuso. Marianne Vos è una delle poche privilegiate capaci di mantenersi con il ciclismo, ma negli ultimi anni si è avvicinata molto a certe tematiche. Nel 2014, insieme ad altre colleghe, ha firmato una petizione per creare il Tour de France femminile che ha portato l’ASO (l’associazione che organizza la Grande Boucle) a creare La Course: un surrogato malriuscito di uno degli eventi sportivi più famosi al mondo. Sicuramente è un primo step, ma il traguardo è ancora parecchio lontano.
“Per me, non si tratta di uguaglianza, ma di avere la piattaforma per mostrare alle persone il ciclismo femminile. I media sono tutti lì. È l’evento più grande. È una celebrazione del ciclismo. Non dovrebbero essere solo gli uomini che celebrano il ciclismo, ma anche le donne”.
Questo il pensiero di Vos, espresso in un’intervista del 2014, riguardo alla creazione di una corsa femminile paragonabile al Tour de France.
In realtà ha molto a che fare con l’uguaglianza, dal momento che parliamo di una categoria di atlete che fa molti più sacrifici dei maschi e desidera essere trattata almeno come i maschi, ma tant’è, non è questa la sede per un discorso tanto articolato. Nel ciclismo le donne hanno trovato in Marianne Vos il megafono per esprimere il loro dissenso e la campionessa olandese continuerà a portare avanti questa ineccepibile battaglia. Nel frattempo, continua a fare quello che gli riesce meglio: vincere.
Una serie di infortuni le hanno precluso la possibilità di competere ad alti livelli nel 2015 e nel 2016: soltanto in questa ultima stagione siamo tornati ad apprezzare la vera Marianne. Vince la classica di Vårgårda in Svezia, vince il Ladies Tour of Norway, si piazza seconda al GP de Plouay, balza in testa al Women’s World Tour che finalmente l’UCI ha istituito due anni fa. Vos, con tre gare ancora da disputare per conservare la leadership, avrebbe potuto impreziosire la sua corona con un ulteriore gemma di rara bellezza. Niente da fare. Preferisce dedicarsi al ciclocross: preferisce aumentare la sua iconicità piuttosto che certificare il suo ritorno ad alti livelli su strada. La classifica del Women’s World Tour vedrà primeggiare la connazionale Van Vleuten ma poco importa, sullo sterrato si è tornato a parlare di lei. Tre gare due successi, la coppa del mondo nel mirino, la sensazione che per ancora qualche anno i nostri occhi saranno riempiti dalle gesta della migliore, forse, di una delle migliori, sicuramente, cicliste di tutti i tempi.
In copertina foto @Uci_CX