Darwin Atapuma ha impiegato anni prima di conquistare la tanto agognata vittoria.
In un mondo dove la globalizzazione spinge sempre più verso un’irreversibile omogeneità nei bisogni dei consumatori, il ciclismo si affaccia sul mercato come un cliente insolito. Preferendo la tradizione alla standardizzazione del prodotto, volge la sua attenzione verso paesi in grado di esportare le loro specialità: nel caso della Colombia, atleti nati per compiere gesta eroiche. La Colombia è un’impresa ormai navigata che si è inserita rapidamente in un mercato, fino a qualche anno fa, riservato a pochi eletti. La terra di Simón Bolívar, infatti, sembra un ambiente fertile in cui giovani talenti crescono particolarmente sani, sfoggiando qualità sopraffine. La possibilità di pedalare all’ombra della Cordigliera delle Ande, dove la disponibilità di ossigeno si dirada, è certamente qualcosa di poco noto a noi europei.
Lo stato colombiano serve su un piatto d’argento, come specialità della casa, scalatori spavaldi e temerari. Sognatori e allo stesso tempo lavoratori indefessi venuti al mondo con il solo obiettivo di conquistarsi un posto tra i professionisti. Sono ciclisti destinati perlopiù a raccogliere successi di rilievo nei tre grandi giri per poi riaffermarsi negli anni a venire; oppure, come spesso capita, a conquistare la gloria prima di eclissarsi. Vengono catapultati in Europa con tre semplici richieste: pedalare, lottare e vincere. Noi “orientali”, vedendoli in azione, ci siamo affezionati a loro e alle loro umili storie. Negli anni abbiamo lentamente imparato ad amarli (o a odiarli) per i loro atteggiamenti e la loro indole.

Il volto duro e affilato di Nairo Quintana e, in netto contrasto, il brio e l’allegria di Rigoberto Urán e Esteban Chaves, stanno ora cedendo il passo ai promettenti Miguel Ángel López ed Egan Bernal. Tutti nomi familiari, famosi. Tra essi si inseriscono però gli sconosciuti cacciatori di fama: atleti lanciati in fuga nel tentativo di conquista di tappe dove la pianura è un miraggio e le vette dominano la scena. Darwin Atapuma, come suggerisce parte del cognome, è uno di loro. È un predatore. Segue il suo istinto e si muove lesto con lo sguardo fisso sul traguardo di giornata, con un unico obiettivo in testa: liberarsi della concorrenza per agguantare il successo in solitaria.
John Darwin Atapuma Hurtado nasce nel 1988 a Túquerres, una cittadina posta a tremila metri sul livello del mare dove la mancanza di ossigeno viene compensata dall’abbondanza di povertà. In un luogo in cui l’agricoltura la fa da padrona, il giovane colombiano cresce senza alcuna ambizione d’intraprendere la carriera ciclistica. Il talento chiama, Darwin gli volta le spalle. Il suo sogno è lavorare nei campi, ma il destino non ne vuole sapere delle voglie assurde di un cocciuto contadino. Il fato si affida così a Remijio: suo fratello gli regala la prima bicicletta, incaricando Alex, un altro dei tanti fratelli, d’insegnargli il mestiere. Darwin questa volta risponde positivamente. Si diverte e in sella si sente a suo agio. I graffi e le cadute non lo fermano e, fin da piccolo, pedala con estrema facilità, iniziando a raccogliere successi lungo la strada. Corre ma non lo fa per se stesso; lo fa più che altro per la sua famiglia, per realizzare il loro desiderio di vederlo correre in Europa insieme a “quelli che contano nel ciclismo”.
Il primo posto tra gli allievi nella classifica generale della Vuelta del Porvenir de la Colombia accende in lui la consapevolezza di essere qualcuno. Vuole provarci. Vuole ricambiare la fiducia che i suoi genitori ripongono in lui. Si trova così ad indossare i colori della formazione Orgullo Paisa, con la quale ottiene parecchie vittorie in Colombia, ma anche in Costa Rica e in Ecuador. Nel 2008 conquista il titolo nazionale nella prova in linea, categoria Élite. Un tripudio. Le sue qualità di scalatore non passano inosservate e, nel 2009, il team Continental Colombia es Pasión lo arruola tra le sue fila, proiettandolo verso il mondo dei professionisti. Il mondo agricolo è alle spalle e il desiderio di coltivare cacao e mais per tutta la vita, piano piano, si assopisce.

Per qualche anno corre con la squadra colombiana, migliorandosi continuamente grazie alle competenze dei suoi tecnici e all’agonismo che si respira all’interno della società. I duri allenamenti con compagni di squadra di un certo calibro, quali Jarlinson Pantano, Robinson Chalapud, Esteban Chaves e Nairo Quintana, danno i loro frutti e il predatore venuto da Túquerres si mette in luce. Nel 2009 vince la terza frazione del GP de Beauce, una corsa che si svolge nel Québec, in Canada. L’anno successivo, invece, partecipa al Tour de l’Avenir, dove conquista un prestigioso secondo posto nella tappa del Col du Béal e sfiora il podio in quella con arrivo a Risoul. Conclude nono in classifica generale, dietro ai suoi compagni Pantano, terzo in maglia a pois, e Quintana, che chiude primo con un minuto e quarantaquattro secondi di vantaggio sull’americano Andrew Talansky.
Darwin si sviluppa e cresce pacatamente, come l’erba nei campi di fianco a casa. Nel 2012 fa un balzo decisivo nella sua carriera ciclistica: il felino diventa professionista e i suoi parenti possono finalmente gioire. Il contadino è riuscito a realizzare il sogno della sua famiglia e ne va piuttosto fiero. La felicità è tanta e la gratitudine verso il team Colombia, possessore della licenza Professional Continental, che ha riposto in lui fiducia e speranze, viene subito ripagata. All’inizio della stagione si aggiudica la quarta e ultima tappa del Giro del Trentino, precedendo Carlos Betancur e Domenico Pozzovivo sul traguardo del Passo Pordoi; chiude ottavo nella generale. Arriva ad un passo dalla vittoria in altre due occasioni: al Tour of California nella frazione del Mount Baldy, dietro a Robert Gesink, e nella decima frazione della Vuelta a Colombia. Dopo l’exploit iniziale riesce a centrare, a fine stagione, un terzo posto nei campionati nazionali su strada. La pelle di El Puma assume sempre più la colorazione delle fave di cacao, il cibo degli Dei: ormai è maturo.
Il 2013 segna una svolta importante nella carriera di Darwin. Per la prima volta partecipa ad un grande giro e ha la possibilità di mettersi in luce. Claudio Corti, il suo direttore sportivo, confida in lui e il campesino colombiano non delude le sue aspettative. Schierato nel team che affronta la corsa rosa, Atapuma agguanta un nono posto nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo, dimostrandosi uno scalatore con gli attributi e, per un soffio, non sale sul podio nella speciale classifica riservata ai giovani. Per essere la sua prima volta al Giro d’Italia, un diciottesimo posto nella generale è un buon punto di partenza. Un trampolino di lancio che rinvigorisce l’autostima del predatore che, al Giro di Polonia, sente l’odore del successo. La preda è vicinissima e l’agile puma non se la fa scappare: vince la sesta frazione, regalando al suo team la primissima vittoria in una gara del circuito UCI World Tour. Felicità immensa per tutti, fomentata dal contatto inaspettato della BMC che lo mette sotto contratto. El Puma cambia la muta.

Il primo anno è sfortunato e corre poco. Portato al Tour de France per supportare Tejay van Garderen nella conquista della maglia gialla (vinta da Vincenzo Nibali), cade nella settima tappa fratturandosi il femore. Con immensa delusione è costretto al ritiro e all’operazione chirurgica. Tutto da rifare. L’anno successivo viene rinnovato dalla squadra statunitense. Le gambe di Darwin tornano gradualmente a girare. Gli arti arrugginiti cominciano a sciogliersi, i movimenti si fanno più fluidi e la ventesima posizione al Trofeo Laigueglia è un segno di buon auspicio. La stagione prosegue tra la Volta Ciclistica a Catalunya, il Tour de Romandie, il Giro d’Italia, la Vuelta a España e termina con il Giro di Lombardia. Darwin è un felino singolare: ringhia ma non morde. Si muove guardingo, preferisce rimanere nell’ombra. Le poche volte che agisce, lo fa provandoci da lontano o in solitaria. Ma il suo branco è forte, soprattutto nelle corse contro il tempo. Grazie all’aiuto dei compagni di caccia riesce ad affondare le proprie fauci nella cronosquadre inaugurale della Vuelta. È solo una magra consolazione per la belva carnivora, che, individualmente parlando, rimane a bocca asciutta e con la pancia vuota.
Lo stomaco brontola, El Puma ha fame. Capisce che per sopravvivere deve imparare a procurarsi il cibo da solo. La mente lo rimanda ai bei tempi, quando sognava un futuro da contadino a Túquerres. Il destino non ha voluto proprio saperne di questa faccenda e lo ha portato in sella ad una bici dall’altra parte del mondo. Lontano da casa, Darwin ha imparato che la vita in gruppo è faticosa. Ma lui conosce bene il significato della parola fatica ed è per questo motivo che, prima di tornare al suo amato Paese, vuole lasciare il suo segno, o almeno provarci. Lo deve alla sua famiglia e a tutti i sacrifici fatti finora. Non può mollare, non ora.
Lentamente si alza e seguendo il suo istinto, con la bava alla bocca, si lancia sul Giro d’Italia 2016, un piatto molto appetitoso. Per placare la sua fame si affida a ciò per cui madre natura l’ha messo al mondo: cacciare. Così, durante la decima tappa, fiuta la fuga giusta e si inserisce abilmente tra i tredici prodi di giornata. È una frazione particolarmente mossa, con due GPM negli ultimi trenta chilometri; i fuggitivi riescono ad accumulare un vantaggio tale da permettere ad alcuni di loro di giocarsi la vittoria. El Puma aggredisce gli avversari a colpi di pedale, ma lungo le rampe di Pian del Falco perde lucidità e si fa scappare sotto il naso alcuni rivali. Prova a dare tutto quello che ha sulla salita che porta al traguardo di Sestola, invano. Si consola con la terza piazza, dietro a Giulio Ciccone e Ivan Rovny.

Giusto il tempo per leccarsi le ferite e Darwin ci riprova sulle Dolomiti, dove si trova decisamente più a suo agio. La tappa è la numero quattordici e il colombiano adotta la stessa strategia: si muove in mattinata inserendosi nel drappello degli attaccanti. Sono in programma ben sei gran premi della montagna, ma il predatore delle Ande non ha paura. I segnali che manda testimoniano uno stato di forma ottimale. Sul Passo Giau forza il ritmo e gli unici a resistergli sono Georg Preidler e Kanstantsin Siutsou. I due compagni di fuga nulla possono però contro quando Atapuma sfodera gli artigli e sferra l’attacco decisivo. Mancano venticinque chilometri al traguardo e Darwin ha gli occhi fissi sulla sua preda. La cavalcata in solitaria sembra non terminare più. Da dietro si avvicinano, le sue forze si spengono lentamente come una candela e le gambe stanche iniziano a farsi sentire. El Puma resiste e persevera ma ai meno due dal traguardo viene ripreso dal terzetto composto da Steven Kruijswijk, Esteban Chaves e Georg Preidler. Tutto da rifare, ancora una volta. Atapuma si aggrappa alle loro ruote come un naufrago ad un pezzo di legno nel tentativo di rimanere a galla. I quattro battistrada procedono in fila indiana, consapevoli di giocarsi la vittoria finale allo sprint. Il colombiano rimane sornione fino ai trecento metri del traguardo, ma quando decide di mostrare le zanne lo fa flebilmente e con poca convinzione. Ancora una volta è un animale che ringhia ma non morde: si pianta poco dopo e conclude quarto. Sul gradino più alto del podio sale il suo connazionale Chaves, mentre Kruijswijk si “accontenta” della seconda posizione e della maglia rosa. Gli occhi di Darwin versano lacrime sul telaio della bici come un fiume in piena. Anche gli animali hanno un lato umano.
El Puma è ferito e si rifugia nella sua tana, in attesa di provare a sferrare l’ultimo disperato attacco al Giro d’Italia 2016. La sua indole guerriera lo porta a rialzare la testa. Si solleva da terra. Nel suo sguardo arde un nuovo fuoco. Lo spazio per provare qualcosa è ridotto all’osso. Manca solo la penultima tappa: tre GPM di prima categoria culminanti nello strappo conclusivo verso il santuario Sant’Anna di Vinadio. Darwin tenta ancora l’impresa, muovendosi sulla prima ascesa di giornata insieme ad altri nove. Sul Colle della Lombarda si scontra con un agguerrito Joseph Dombrowski. Più giovane di lui, l’americano si rivela un degno rivale e non molla la presa. Rein Taaramäe, più esperto, lascia che i due si scornino a vicenda e quando si accorge della loro stanchezza, allunga. Atapuma ha speso molte energie, è provato dal combattimento ed è costretto a tirare il fiato. Arriva secondo sul traguardo, stremato. I segni della battaglia lo lacerano dentro, è deluso. Ancora una volta si è fatto soffiare la preda da sotto il naso. Il successo arriva per gli altri – soprattutto per Nibali, che conquista la maglia rosa con un’azione spettacolare – ma non per lui, che comunque entra nella top ten, concludendo nono.

Madre natura, però, pensa sempre alle sue creature. Ha dotato il felino delle Ande di un recupero sorprendente. Le lesioni interne e il tormento per non essere riuscito a mettere qualcosa sotto i denti durante il Giro d’Italia guariscono piano piano. La convalescenza è tosta, soprattutto perché c’è il rimpianto di non essere riuscito a dedicare una vittoria a sua madre, scomparsa proprio durante la corsa rosa. Ma quando il destino ha bussato, anni prima, alla porta del giovane contadino, aveva in mente per lui un piano ben preciso.
Il disegno tracciato dal fato lo porta in un paese confinante con l’Italia, dove le montagne non mancano: la Svizzera. Dopo un inizio dominato dagli incredibili numeri di Peter Sagan, alla prima occasione utile, la quinta frazione, Darwin si butta di nuovo nella mischia. Tappa alpina con Furkapass, Gotthardpass e arrivo in quota a Carì: un campo di battaglia adatto al puma. Le condizioni meteo sono avverse, ma il vento spinge il colombiano come un barca a vela su mare piatto. È in sella alla sua bici, ma vola sulla prima salita e parte in avanscoperta insieme ad altri ventitré temerari. Sul passo del San Gottardo è proprio lui a muoversi in prima persona: rompe gli indugi e abbandona la compagnia. Nessuno riesce a resistergli. È un predatore al comando e le sue gambe macinano chilometri in solitaria.
Dietro, nel gruppo, si accende la bagarre. Uno dei più attivi è Tejay van Garderen, suo compagno di squadra. Il motivo non si capisce tuttora. Darwin stringe i denti e non molla, continua impavido nella sua azione. Questa volta la preda è lì, la vede, ne sente l’odore e si carica, come uno squalo alla vista del sangue. Sente alle sue spalle sopraggiungere alcuni corridori, ma la forza che brucia in lui non può spegnerla nemmeno l’oceano. Non è la fortuna, ma la sua determinazione a premiarlo: finalmente riesce a trionfare in una tappa alpina alzando le braccia al cielo. La gioia è immensa. Il fiato sul collo di Warren Barguil e Pierre Latour, giunti rispettivamente a quattro e sette secondi, non lo hanno spaventato. Questa volta El Puma non ha tremato e, dopo vari tentativi, ha affondato i suoi artigli. È l’uomo più felice del mondo.

Dopo un periodo di riposo si presenta al via della Vuelta a España. Darwin è fresco, le gambe girano come mulini al vento e la mente è lucida. Alla quarta tappa opta per la sua strategia preferita: la fuga da lontano. Partito con altri ventuno corridori, arriva ai piedi dell’asperità finale di San Andrés de Teixido con il naso inebriato dal profumo di maglia rossa. Reagisce troppo tardi all’attacco di Lilian Calmejane, che conquista il suo primo successo in un grande giro, e taglia il traguardo con quindici secondi di ritardo. “L’eterno piazzato” questa volta non piange, anzi, sorride gaio e fiero davanti al pubblico mentre indossa la maglia di leader durante la cerimonia di premiazione. La felicità però è passeggera e proprio quando si sta affezionando al rosso, dopo l’ottava frazione è costretto a cedere il passo al suo connazionale Nairo Quitana, vincitore di quella settantunesima edizione della corse a tappe spagnola.
Gradualmente perde posizioni nella generale, fino al trentaduesimo posto, ma prima di concludere è deciso a lasciare il segno: vuole vincere. Ci riprova nella penultima tappa: Benidorm–Alto de Aitana. Tappa dedicata agli scalatori e lui, da felino lesto e astuto quale è, si inserisce nella fuga giusta. Purtroppo, ancora una volta è costretto ad arrendersi, dopo l’interminabile salita finale di ventuno chilometri, ad un altro francese: Pierre Latour ha la meglio nello scontro a due. Per l’ennesima volta il predatore andino ringhia ma non morde.
Darwin conclude la sua stagione in casacca BMC con un diciottesimo posto al Giro di Lombardia, prima di cambiare squadra e accasarsi alla UAE Team Emirates. El Puma, invecchiando, perde il pelo ma non il vizio, quello dei piazzamenti. Durante il 2017 tenta l’assalto al Tour de France. Cambia il terreno di caccia. I francesi sono però la sua maledizione, e, come al solito, è un transalpino a rubargli la scena. Nella diciottesima tappa, quella che arriva sull’Izoard, è Warren Barguil a rifilare venti secondi al terzetto composto da Bardet, Froome e Atapuma, che, stranamente, arriva secondo.

L’anno successivo Darwin non riesce a riprendersi dai morsi della fame e la sua sete di vittorie sembra sfumare come i bordi di un disegno non terminato. Il felino non si arrende, non è nella sua natura. Stringe i denti, mostra gli artigli ma non riesce a ottenere nulla che lo soddisfi. Dopo l’accoppiata Tour–Vuelta dell’anno precedente, stravolge i suoi programmi e punta tutto sul doppio impegno Giro-Tour. Rimane nell’anonimato in entrambe le corse e capisce che sarà difficile ripetere la stagione d’oro del 2016.
In questo 2019 El Puma, in divisa Cofidis, non ha ancora lasciato il segno. Il Tour de Suisse, con la tappa con arrivo in cima al San Gottardo, la salita dove fece il vuoto nel 2016, sembrava disegnato appositamente per lui. Il passaggio ad una formazione Professional, purtroppo, non gli permetterà di ripetersi, ma potrà mettersi in mostra al Tour de France. Sperando che la maledizione dei francesi sia stata esorcizzata, ci si augura di vedere la zampata di Darwin, sicuramente in fuga e possibilmente davanti ad un corridore di casa.
Foto in evidenza: ©Team Cofidis, Twitter