Il fascino inebriante delle storie sudamericane si mescola con Belgio e pavé.

 

Se Álvaro Hodeg fosse un agente atmosferico, sarebbe il vento. Quello che lo spinge se favorevole, che lo rallenta se contrario, ma al quale lui continua ad ispirarsi in ogni volata che lancia. Lo ha fatto al Catalunya, all’Handzame, al Tour de l’Avenir. Corre in una squadra che ha portato il vento dalla sua parte, a fenderlo per Hodeg ci pensano Sabatini e Mørkøv. Al Giro di Polonia ha trovato un altro giovane apprendista, Pascal Ackermann, capace di aggiudicarsi due tappe, una in più del colombiano. Álvaro era contento ma non pienamente soddisfatto, si rese conto che il tedesco stava meglio di lui, quando si vince viene più facile ridere nelle interviste.

Se Álvaro Hodeg fosse una qualità, sarebbe l’impegno. Che non è soltanto il pedalare, quello per un ciclista professionista è lavoro, come l’operaio in fabbrica o il contabile con le fatture. L’impegno di Hodeg è quello di un ragazzo disposto a tutto per rincorrere il suo sogno. Persino a lasciare Montería, la sua città vicino al mare, per trasferirsi a Medellín, d’altronde per spiccare il volo bisognare partire dal punto giusto. Di giorno a scuola, per un anno, fino al quindicesimo della sua vita; di sera in pista, ad allenarsi.

Se Álvaro Hodeg fosse un corpo astrale, sarebbe una combinazione di due fattori: talento e fortuna. Era una sera apparentemente come le altre, quando una persona si sedette sugli spalti del velodromo dove Hodeg solitamente si allenava. Rimase lì per un po’, lo osservava, finché non decise di chiamarlo. “Fammi un giro a tutta, parcero”. “Mai andato così forte”, confida Hodeg. Quell’uomo era un direttore sportivo della Coldeportes, la prima vera squadra del colombiano.

Se Álvaro Hodeg fosse un rimorso, sarebbe il suo cognome. Chi lo conosce bene, infatti, lo chiama in maniera diversa. Non a caso, ovviamente: non Hodeg, bensì Hodge, all’anglosassone, il cognome si chiude con la g dolce. Come ogni storia sudamericana che si rispetti, la colpa è dell’anagrafe. E così, Álvaro è un Hodeg in una famiglia di Hodge. Un rimorso, o forse no. Alla fine il nome e il cognome indirizzano, spiegano, raccontano. Chissà cosa gli avrebbe riservato il destino, se fosse stato un Hodge. Hodeg è più secco, scattante, latino: un modo come un altro per ribadire la sua nazionalità, quella colombiana.

Se Álvaro Hodeg fosse un fuoriclasse del passato (recente), sarebbe Tom Boonen, il suo idolo. Fisicamente lo ricorda soltanto per l’importante presenza: il belga era più slanciato, Hodeg invece più piazzato. Gli piacciono le pietre, come Gaviria e Boonen, e la sua corsa preferita è la Parigi-Roubaix, come Gaviria e Boonen. Punta anche ai Campi Elisi, sognare in grande costa tanto quanto sognare in piccolo. È consapevole che dovrà partire dal Giro d’Italia, che sarà difficile, che ha almeno Viviani davanti nelle gerarchie, che una corsa di tre settimane è dura per tutti e specialmente per lui che non ne ha mai disputata una. Dice che lo sa, o perlomeno se lo immagina. Fa spallucce, anche a spallate se necessario. Álvaro Hodeg, nonostante la giovane età, sembra aver appreso la lezione più importante: abbiamo più tempo che vita, conviene comportarsi di conseguenza.

 

Foto in evidenza: @Federación Colombiana de Ciclismo, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.