L’Italia lo aspetta nelle classiche, dove la nostra assenza sta diventando preoccupante.
Se il compito dei giovani ciclisti fosse quello di assomigliare ai più anziani, Alessandro Covi avrebbe vita facile scegliendo Davide Formolo. Per chi scrive, associare i due risulta abbastanza immediato. Fisicamente simili, tirati e slanciati, rispondono alle domande nello stesso modo: in maniera semplice e spontanea, non si perdono in frasi fatte e giri di parole, quel poco che hanno da dire lo dicono subito. Hanno il viso pulito delle statue e il carattere socievole dei bambini. Il ciclismo, però, non è un gioco di somiglianze e quindi questo paragrafo d’introduzione non è servito a nulla.
Alessandro Covi ha vent’anni: non ne dimostra né uno di più né uno di meno. Lui lo sa, d’altronde il tatto della mano o il riflesso di uno specchio glielo ricordano quotidianamente. Gli antichi sostenevano che la bellezza era la manifestazione del vero e del giusto.
Sarà per questo che Covi stravede per Cunego e Kaká, due che gli assomigliano (o meglio, ai quali assomiglia). Hanno un animo buono, una sensibilità che spesso stride nel mondo dello sport. Nel ciclismo, tuttavia, più che bravi conta essere forti: Covi, fortunato, ha il talento che gli copre le spalle.
Ha un’idea di ciclismo tutta sua. Le corse di un giorno lo intrigano perché sente di esserci portato: ammira l’Amstel Gold Race perché l’ha vinta anche Cunego e, soprattutto, perché il premio è in birra, ma se dovesse scegliere una gara soltanto prenderebbe ad occhi chiusi la Tre Valli Varesine. Varese è la sua terra, da Taino (dov’è nato) saranno trenta chilometri.
Sinceramente in difficoltà, dice che non sa descriversi, che tranne la moto da cross non ha nessun’altra passione, che sta prendendo ripetizioni di inglese anche se lo studio non è il suo pane. Dunque, dovrà accontentarsi di far fatica su una bicicletta da corsa: gli viene bene, è uno dei talenti italiani più vincenti e interessanti per il futuro. Passerà professionista nel 2020 con la UAE Emirates ma ha già provato a misurarsi coi grandi: gli è piaciuto, c’è molta più organizzazione, spiega che il professionismo lo attrae perché emergono i veri valori e vince sempre il più forte.
Covi non conosce, e non è interessato a conoscere, i suoi limiti. Sente di migliorare anno dopo anno e questo gli basta. L’ultima stagione lo ha visto protagonista in Italia e all’estero e di questo va fiero: “Non credo che gli stranieri abbiano qualcosa in più di noi”, dice. “Fanno un calendario diverso, è vero, ma se arrivassero a venticinque o ventotto anni già spremuti?”. Effettivamente, potrebbe anche darsi.
La vittoria di tappa al Tour de l’Avenir è il ricordo che rievoca con maggior felicità: il giorno prima era caduto, la voglia di riscatto fu la sua benzina interiore. Che il ciclismo sarebbe potuto diventare un lavoro lo ha capito soltanto lo scorso anno, mentre quello che non ha ancora capito è perché, con tutti gli sport esistenti e da lui praticati da giovanissimo, è finito proprio su una bici. “Ma non mi logoro il fegato”, scherza. “Le vere passioni sono sempre immotivate”.
Foto in evidenza: ©Team Colpack, Facebook