La Settimana Santa e lo sguardo di “Vedremo”, alias Gianni Bugno.
Ci sono corridori che legano la propria carriera in maniera indissolubile al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Roubaix.
Uno di questi è Tom Boonen, che conosceva queste corse come le stanze di casa sua: quattro vittorie alla Roubaix e tre al Fiandre; nonostante sia nato dalle parti della classica dei muri fiamminghi, non nasconde la predilezione verso la corsa francese: “È quella più speciale di tutte, i muri del Fiandre li percorri anche venti volte in stagione in altre corse, la Roubaix è sempre una sorpresa“.
C’è Philippe Gilbert, vallone: in terra fiamminga si è inventato una delle più grandi imprese di questi anni. Tra Belgio e Francia poi, sono nati miti contemporanei come Cancellara, abbiamo visto il trionfo dell’eleganza (Bartoli), la nascita di nuove rivalità (Sagan contro Van Avermaet), cadute e risalite (Ballerini e Museeuw) e vittorie difficilmente pronosticabili (Hayman, Vansummeren, Nuyens, Devolder).
In attesa di scoprire chi ci farà divertire in queste gare nei prossimi anni (ogni riferimento a van Aert e van der Poel è voluto), anche l’Italia ha avuto la sua dose di forti emozioni: la volta in cui un brianzolo in maglia gialloverde beffò i suoi avversari, è una di quelle.
Giro delle Fiandre, 3 aprile del 1994. Ad alzare le mani sul traguardo, non senza brividi, fu Gianni Bugno. Svizzero di nascita, ma da sempre brianzolo, Gianni Bugno si è distinto per essere stato corridore di classe, completo, schivo e taciturno. Un po’ fuori dal tempo con quel tono garbato, capace di guardarti dritto negli occhi, oppure di traverso a seconda del suo impulso interiore, quando era in giornata poteva vincere ovunque, contro chiunque e su ogni terreno. Era il classico atleta che potevi aspettare, ma che non sarebbe arrivato mai, oppure che avrebbe sfoderato una giornata indimenticabile nei momenti meno attesi. Una Milano-Sanremo attaccando da lontano, due Campionati del Mondo battendo Jalabert, Konyshev, Rooks e Indurain, un Giro d’Italia dominato dal primo all’ultimo giorno, cronometro comprese. Bugno è stato capace di conquistare podi al Tour anche quando non era al massimo della forma, maglie tricolori e, in un tripudio pasquale, il Giro delle Fiandre del 1994. Quel giorno vinse davanti al fiammingo Museeuw, idolo in Belgio e all’epoca campione in carica della Ronde Van Vlaanderen, un evento che trasforma la regione belga in una orgasmica festa in technicolor. Un evento che blocca per una domenica un’intera Nazione.

Nel giorno di Pasqua di quasi venticinque anni fa i corridori restano in sella per duecentosessantotto chilometri, contemplando l’immane fatica sin dai primi passaggi sui celebri muri in pietra. Al mattino partono da Sint Niklaas, vicino Anversa, la città dei diamanti e del secondo porto più grande d’Europa. Una strada, spregevole per le gambe del gruppo e affascinante quanto basta per i tifosi, li porta dopo oltre sei ore verso il piccolo sobborgo di Meerbeke, nelle Fiandre Orientali. La giornata è tiepida, soleggiata, i corridori limano e si districano in mezzo alle tortuosità del percorso, tra l’odore di birra, patatine fritte e würstel e le urla della gente riversata lungo le stradine e i muri in ciottolato, alcuni così duri da costringere ai meno avvezzi il superamento a piedi.
Mancano poco più di quindici chilometri al traguardo quando nel gruppo di testa restano in cinque: due italiani, Gianni Bugno e Franco Ballerini, due atleti di casa entrambi di nome Johan, Museeuw e Capiot, e con loro un ucraino, prima sovietico, poi moldavo e successivamente belga, ovvero Andrei Tchmil, uno dei cacciatori di classiche più spietati e vincenti di quegli anni, con una storia di passaporti degna di uno spy thriller scritto da John Le Carrè. Il quintetto approccia il Kapelmuur, subito dopo l’abitato di Geerardsbergen: i francesi lo chiamano Grammont, ma è semplicemente De Muur.
Capiot, in maglia TVM, arranca sin dai primi metri, le sue gambe sono una corda tesa pronta per essere suonata. Nel tratto finale si spezza, alzando definitivamente bandiera bianca. Bugno resta in compagnia di grandi specialisti del pavé come Museeuw, Tchmil e Ballerini, autore dell’andatura lungo il Muur. La Cappella in cima è ormai alle spalle e segna la linea di demarcazione tra la sofferenza di arti atrofizzati e la strada verso il traguardo. Resta ancora un ultima asperità, il Bosberg, che i quattro affrontano con Bugno in testa a scandire un ritmo tale che da dietro non rientri più nessuno.
Bugno è in cerca di riscatto dopo una stagione – quella del 1993 – dal magro bottino, nella quale raccoglie solamente qualche vittoria in tono minore e un secondo posto all’Amstel Gold Race, corsa che fino al 1996 non vede nessun vincitore italiano. Il favorito per lo sprint è Johan Museeuw, che diverrà negli anni successivi, con tre vittorie, uno degli uomini record della corsa. Mancano pochi chilometri, davanti iniziano le schermaglie del caso: allunghi, buchi, qualcuno salta il cambio. Museeuw è nervoso, vuole vincere la gara ad ogni costo e si lancia in gesti plateali: “Se continuiamo a fare così ci riprendono”. Tutti si sentono battuti dal campione uscente che sa di avere l’occasione per vincere un’altra volta.
Ballerini, il meno rapido del quartetto, prova ad anticipare lo sprint, ma viene subito stoppato da Tchmil. Ci prova anche Bugno senza successo, poi di nuovo Ballerini, ma di nuovo è lesto Tchmil a portarsi sulla sua ruota. Siamo nel rettilineo finale: Bugno controlla in ultima posizione e a duecentocinquanta metri dalla linea del traguardo si sposta tutto verso la sua sinistra anticipando la volata.

Potente ed elegante, con la classe che lo contraddistingue, innesta il massimo rapporto e si porta in testa. Gli ultimi trenta metri tirano leggermente all’insù, e Bugno vede la linea, sente il leggero vantaggio su Museeuw, annusa come un cane da tartufo l’odore del trionfo che gli riempie le narici. Smette di pedalare e alza le braccia per esultare. Museeuw grazie ad un perfetto colpo di reni affinato negli sprint, sbanda per l’eccessiva potenza, ma gli è a ridosso. Un successo che a cinquanta metri dal traguardo non sembrava più in discussione viene messo in dubbio dalla troppa sicurezza.
Gli attimi prima della decisione sono secoli. Il cielo sopra le Fiandre, dapprima clemente come avesse stretto con i corridori un patto blasfemo, si trasforma in piombo. Di piombo sono anche le gambe degli atleti, tranne quelle di Gianni Bugno che siede tranquillo sul palco delle premiazioni. È leggero come una piuma trascinata dal vento, sembra quasi disinteressato all’esito di quello sprint, forte di quel disincanto che ne ha caratterizzato un’intera carriera. Pregio e difetto di uno dei più forti corridori degli anni ‘90.
Il fotofinish decreta: la vittoria è di Gianni Bugno per appena sette millimetri. Lo sprint del Giro delle Fiandre 1994, oltre a dimostrare la rara completezza di un corridore capace di competere e vincere su tutti i tirreni, è l’archetipo del suo modo di intendere il ciclismo.
“La nostra fortuna – dicevano di lui diversi colleghi in gruppo – è che non sa quanto va forte”. Gianni Bugno lo sapeva, ma solo in parte.
Immagine di copertina: ©Eric HOUDAS