Delle tante imprese di Jacques Anquetil, questa è la meno conosciuta.
Quello di Jacques Anquetil è un nome che qualsiasi appassionato di ciclismo conosce. Sentendolo, pensi a uno dei più grandi corridori della storia del ciclismo nelle grandi corse a tappe: cinque vittorie e un terzo posto in otto partecipazioni al Tour de France, al Giro d’Italia sei presenze, due vittorie, due secondi e due terzi posti. Due incursioni anche alla Vuelta, con un ritiro e una vittoria. Quando Anquetil ha terminato una corsa di tre settimane non è mai uscito dal podio: tredici in tutto in sedici partecipazioni. Grande specialista delle cronometro, ne ha vinte a decine; avrebbe conquistato sicuramente vari titoli mondiali, se non fosse che ai suoi tempi la cronometro non veniva disputata. Vinse però nove volte il Gran Premio delle Nazioni, corsa francese che all’epoca era considerata di fatto il Mondiale contro il tempo.
Il Mondiale in linea, invece, non è mai riuscito a conquistarlo, pur avendoci provato quattordici volte con un secondo posto, l’unico podio, nel 1966 al Nürburgring. Anche nelle classiche monumento non lasciò il segno: vinse solo una Liegi-Bastogne-Liegi nel 1966, disputandone due in tutto. Una sola presenza al Giro delle Fiandre nel 1960, mentre alla Milano-Sanremo e al Giro di Lombardia si faceva vedere più spesso, rispettivamente sei e sette partecipazioni senza centrare nemmeno un podio. Inseguì a lungo la Parigi-Roubaix, provandoci undici volte con un modesto ottavo posto nel 1960 come miglior risultato.
Jacques Anquetil non era nemmeno un santo. È noto che fosse un difensore delle pratiche dopanti. Arrivò a definire “un’idiozia” la legge francese contro il doping approvata nel 1965. Ammise in varie interviste di aver fatto uso di sostanze proibite e si giustificò dicendo che tutti lo facevano. Era anticonformista per eccellenza e amante di quella che ai suoi tempi chiamavano la bella vita. Non si negò piaceri di nessun genere e così facendo forse si accorciò un po’ la carriera. Più particolari ancora le rivelazioni che fece su di lui la figlia Sophie nel libro del 2004 “Pour l’amour de Jacques”. Sophie Anquetil racconta che dopo aver conquistato la moglie del suo medico di fiducia, Janine Boeda, ed averla sposata dopo il divorzio nel 1958, si prese cura dei figli che lei aveva avuto dal primo marito: Annie ed Alain. Successivamente, però, quando Annie aveva diciott’anni, ebbe una relazione con lei, da cui sarebbe nata appunto Sophie, registrata poi all’anagrafe come figlia di Janine. Sophie sostiene addirittura che il giorno della sua prima comunione il padre iniziò anche una relazione con Dominique, moglie dell’altro figlio adottivo di Jacques, Alain, da cui nacque nel 1986 Christopher, ultimo figlio del campione francese che scomparve poi prematuramente pochi mesi dopo, il 6 novembre 1987, per un tumore allo stomaco.
Era nato l’otto gennaio 1934. È la stessa Sophie, però, a spiegare quanto questi comportamenti derivassero dallo stile di vita libero e anticonvenzionale della famiglia e non da violenza e vessazioni. La sua nascita fu decisa di comune accordo da sua madre, suo padre e sua nonna, per permettere a Jacques e Janine di avere quel figlio che non era mai arrivato. Sophie ricorda poi nelle pagine del libro, mai tradotto in italiano, anche un’infanzia felice in questa strana famiglia allargata.
Ora torniamo però all’ambito che più ci appartiene, quello sportivo. Vogliamo andare a scoprire un’impresa di Jacques Anquetil che in Italia è poco conosciuta. Venne infatti ottenuta mentre sulle nostre strade era in corso il Giro d’Italia del 1965, poi vinto da Vittorio Adorni, e all’epoca la stampa non si occupava quasi per nulla delle vicende estere quando c’erano da seguire eventi interni, soprattutto se importanti e amati dai tifosi come il Giro. Il 22 maggio 1965 è il giorno della partenza della prima tappa del Delfinato, corsa che oggi si disputa invece a metà giugno ed è considerata una vera e propria “prova percorsi” dell’imminente Tour de France nei dipartimenti della Drôme, dell’Isère e delle Hautes-Alpes.
In quel 1965, Anquetil aveva già vinto diverse corse a tappe di una settimana, tra cui la Parigi-Nizza, e prese il via da favorito in una competizione in cui aveva già primeggiato nel 1963. L’avversario principale era il rivale di sempre: Raymond Poulidor. Il corridore normanno non ebbe soverchie difficoltà a conquistare il Delfinato. Vinse già la terza tappa, da Saint-Étienne a Oyonnax, poi la quinta da Thonon-les-Bains a Chambéry, e la 7B – la frazione era divisa in due semitappe – una cronometro di trentotto chilometri da Saint-Marcellin a Romans. Si aggiudicò la classifica generale con un vantaggio di 1’43” su Poulidor, l’unico a resistergli, mentre il terzo, il tedesco Kunde, finì a 5’58”. Anquetil aveva però in mente di tentare un’impresa ai limiti dell’impossibile. Prendere parte, e ovviamente provare a vincere, la Bordeaux–Parigi, massacrante maratona di cinquecentocinquantasette chilometri che scatta da Bordeaux alla 2.30 del mattino del 30 maggio, mentre solo nel pomeriggio del 29 ad Avignone si era conclusa l’ultima tappa del Delfinato.
Jacques riceve l’appoggio nientemeno che dal Presidente della Repubblica Francese Charles De Gaulle, che gli mette a disposizione un Myster 20 militare per volare dall’aeroporto di Nîmes-Garons a Bordeaux. L’aereo decolla alle 18.52 e per le 20 è a destinazione. Alle 2.30 Anquetil è pronto per partire insieme agli altri partecipanti alla prova. La Bordeaux–Parigi non va vista come la classica corsa in linea: l’enorme distanza faceva si che vi partecipassero non le tradizionali squadre di corridori, ma singoli specialisti a caccia di un’impresa.
Inoltre era una normale corsa in linea solo per duecentocinquantotto chilometri. A Châtellerault entravano in scena gli allenatori coi derny, quelli usati in pista per le prove di mezzofondo, che davano la scia ai loro allievi fino al traguardo parigini. Sicuramente aiutandoli, ma anche obbligando chi voleva vincere a tenere medie ben più elevate di quelle abituali. Al via erano dunque soltanto in dodici. Oltre a Jacques c’erano Annaert, Stablinski, Lefevre, Le Meun, Mahé, Pamart e Valdois per la Francia, Simpson e Dempson per la Gran Bretagna e il belga Melckenbeeck.
Balza agli occhi il nome di Tom Simpson, vincitore della Bordeaux-Parigi nel 1963, primo vero campione britannico di fama internazionale nel ciclismo, destinato a scomparire tragicamente il 13 luglio 1967 durante il Tour de France. Collassò sul Mont Ventoux, stroncato dalla combinazione di anfetamine, fatica, disidratazione e cognac accettato dagli spettatori per cercare di arrivare comunque in vetta.
Jean Stablinski, invece, francese di famiglia d’origine polacca, era compagno e fedele gregario di Anquetil alla Ford. Questo non gli impedì di vincere centosei corse in una carriera professionistica iniziata nel 1952 e terminata nel 1968. Nella Bordeaux-Parigi del 1965 partiva come favorito; in pochi credevano nelle possibilità di Anquetil di riuscire a vincerla arrivando direttamente dal Delfinato. Stablinski conosceva la corsa molo bene, l’aveva disputata più volte a partire dal 1953, ma in strada finì poi col fare da supporto come sempre al suo capitano.
La prima parte della corsa, quella senza le moto, appare difficile da subito per Anquetil: chi lo vede da vicino racconta di un corridore molto provato. Viene anche toccato senza conseguenze da una vettura del seguito, e nel cuore della notte si avvicina all’ammiraglia del suo direttore sportivo Géminiani con l’intenzione di ritirarsi. Raphaël Géminiani, però, è uomo non certo tenero. Inoltre, l’idea di far tentare al corridore normanno la doppietta Delfinato-Bordeaux-Parigi è stata in origine sua. Géminiani conosce bene Anquetil, il suo carattere e il suo orgoglio. Gli fa una sfuriata terribile e Jacques, “punto sul vivo” come riferirà qualche testimone, riprende imbufalito a pedalare lungo le strade del nord della Francia, gremite di folla al passaggio dei corridori nonostante l’orario notturno.
A Châtellerault sono pronti ad entrare in scena gli allenatori coi loro derny. Quello del campione normanno lo guida Jo Goutorbe, classe 1916, ex ciclista ed ex primatista dell’ora dietro motori, specializzatosi dopo il ritiro come pilota delle motociclette nei velodromi e sulle strade della Bordeaux–Parigi e del Criterium degli Assi che, nella scia di Goutorbe, Jacques aveva già vinto quattro volte. La battaglia inizia. Si muove per primo Mahé, buon ciclista, discreto cronoman ma certo non al livello di Anquetil e nemmeno di Stablinski e Simpson. Il buon François riesce comunque ad avvantaggiarsi di ben sei minuti sul terzetto appena citato: tutti gli altri sono già fuori corsa.
Stablinski contrattacca, costringendo Simpson a far accelerare la moto per inseguire, con Anquetil in scia. A cinquanta chilometri dall’arrivo, i quattro corridori sono insieme. Attacca Simpson, raggiunto in pochi chilometri da Anquetil e Stablinski. Sulla Côte de Piccardie, non lontano dal traguardo, è Anquetil a partire, e stavolta Tom Simpson si stacca. Il normanno arriva da solo in trionfo al Parco dei Principi di Parigi. Il compagno Stablinski regola Simpson per il secondo posto e si concede un giro d’onore col capitano che era venuto con l’aereo del Presidente della Repubblica a scippargli una corsa che probabilmente avrebbe vinto lui.
Dopo quest’impresa, Anquetil non andò al Tour de France, lasciandolo nelle mani di un neoprofessionista italiano: Felice Gimondi. Si ritirò dalla prova in linea del campionato del mondo di San Sebastián, ma vinse il suo ennesimo Gran Premio delle Nazioni, il nono e ultimo. Iniziarono a circolare voci su un suo imminente ritiro, si diceva che avrebbe lasciato alla fine della stagione 1966, dopo aver tentato il record dell’ora. In realtà, l’ora la conquistò nel 1967, pedalando per 47,493 chilometri, che non furono però omologati perché rifiutò i controlli antidoping che tanto disprezzava.
Lo si vide in strada fino al 1969, con un impegno ridotto; dopo il ritiro al Tour de France e il terzo posto al Giro d’Italia nel 1966, affrontò solo un’altra corsa di tre settimane, quella italiana, dove fu terzo anche nel 1967. Vinse ancora una Catalunya e un Baracchi, proprio in coppia con Gimondi, nel 1968, e un Giro dei Paesi Baschi nel 1969. Poi, a 35 anni, si ritirò in campagna, circondato dalla sua particolare famiglia.
Si riconciliò con Poulidor, con cui aveva litigato fin dal 1961 e a cui poco prima di morire ebbe a dire: “Raymond, abbiamo perso quindici anni di amicizia”. L’origine del tumore allo stomaco che lo portò alla morte a soli cinquantatré anni, lui, grande bevitore di alcolici, la spiegò così: “L’acqua? Ho provato a berla una volta e il mio stomaco non lo ha sopportato.”
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