Perché Richard Carapaz è letteralmente scomparso dopo la vittoria al Giro d’Italia?

 

 

Per un mese, a maggio di quest’anno, Richard Carapaz si era scrollato di dosso i soliti luoghi comuni degli europei sui sudamericani: altalenante, inaffidabile, emotivo, sgraziato, attaccabile; al contrario, si è dimostrato forte, costante, fermo, scaltro, risoluto. I dubbi della vigilia e della prima metà di corsa sono stati spazzati via da un esito inaspettato quanto giusto: Carapaz ha vinto meritatamente il Giro d’Italia 2019, contribuendo a delineare un modello di corridore nuovo.

Tuttavia, la seconda parte della sua stagione ha sollevato più di una polemica. Improvvisamente, quello che è successo a Carapaz è parso inevitabile: doveva succedere, insomma, come prima o poi succede sempre ai sudamericani. Quindi nessuno si è stupito non sentendolo più rammentare e non vedendolo più in corsa. D’altronde, prima di arrivare al Giro d’Italia aveva vinto solo una volta e per di più in una manifestazione di tre giorni e di secondo piano – la Vuelta Asturias.

Festeggiamenti spropositati, l’appagamento che subentra e il richiamo della propria terra che lo allontana per mesi interi dal panorama europeo: un film già visto, un copione buttato giù da una penna di cui non si sentiva la mancanza. Fino a prova contraria non possiamo escludere che ciò non sia successo; quello che è certo, però, è che negli ultimi sei mesi a Richard Carapaz è successo davvero di tutto.

©Nin fishing, Twitter

Il procuratore di Richard Carapaz è Giuseppe Acquadro, cinquantaduenne biellese, ex pasticcere all’ingrosso ma da sempre nel mondo del ciclismo: da giovane come corridore e da grande dietro le quinte. Dal 2005 in poi, anno in cui iniziò a fare sul serio ottenendo la procura di José Rujano, Acquadro non ha fatto altro che estendere la propria influenza: i corridori sotto la sua ala oggi sono una quarantina e tra questi figurano Bernal, i fratelli Quintana e Izagirre, Urán, Kwiatkowski, Fraile, Sosa, Puccio, Rosa, Sbaragli. I rapporti con Rujano e Urán gli hanno spalancato le porte del Sud America, dunque per lui non è stato difficile accaparrarsi la fiducia di Carapaz quando si è presentata l’occasione. Quella di Eusebio Unzué, il deus ex machina della Movistar, se l’è guadagnata anni fa e l’ha consolidata nel tempo, sfruttando tutte quelle trattative che coinvolgevano la squadra spagnola e un giovane talento spagnolo o sudamericano.

Prima ancora che il Giro d’Italia 2019 terminasse, tuttavia, il rapporto tra Acquadro e Unzué si era incrinato: il procuratore italiano aveva reso noto alla squadra che Carapaz non avrebbe firmato e non sarebbe rimasto con loro nel 2020. Quando è arrivata l’ufficialità del passaggio di Carapaz al Team INEOS, Unzué si è sfogato con la stampa: ha descritto Acquadro come una persona interessata soltanto al proprio tornaconto, capace di tutto pur di favorire due squadre su tutte, la Astana e la INEOS. “Non voglio più avere niente a che fare con lui: questo significa che la Movistar non ingaggerà più nessun corridore assistito da Acquadro, a meno che il corridore in questione non se ne liberi”, ha tuonato Unzué. Da Nîmes, sede di partenza della sedicesima tappa del Tour de France, Acquadro gli ha risposto per le rime: “È lui a rimetterci. Seguo diversi talenti spagnoli, significa che si accaseranno da un’altra parte”. Per motivi non ancora pubblicamente chiariti, anche Amador ha rescisso il contratto con la Movistar preferendo il Team INEOS: anche Amador fa parte della scuderia di Acquadro.

Eusebio Unzué. ©Movistar Team, Twitter

Le polemiche sono andate avanti. A due giorni dall’inizio della Vuelta, la Movistar annunciava il forfait di Carapaz, il quale soltanto pochi giorni prima aveva chiuso al terzo posto la Vuelta a Burgos: niente male, considerando che non correva dal Giro d’Italia. Già, ma a cos’era dovuto il forfait di Carapaz? Ad una brutta caduta rimediata durante il criterium Profronde van Etten-Leur, in Olanda: un appuntamento evitabile e un rischio inutile, considerando che alla Vuelta Carapaz avrebbe dovuto dimostrare di non essere un fuoco di paglia. Unzué si dichiarò sconcertato: non sapeva nemmeno che il suo corridore dovesse partecipare ad un evento del genere.

“Ovvio che non avevo detto nulla ad Eusebio”, ha puntualizzato Acquadro alla stampa, “perché avrei dovuto chiedergli il permesso, se tanto dice no a tutto?”. Unzué ha chiuso la questione ricordando che Acquadro non è nuovo a comportamenti simili: successe con Rujano e Gianni Savio nel 2006 e lo scorso anno con Sosa, passato alla INEOS dopo essersi promesso alla Trek-Segafredo. In tutto questo, Carapaz rimaneva in silenzio e in disparte: dalla fine del Giro d’Italia aveva corso soltanto alla Vuelta a Burgos, cinque tappe, e i problemi per lui non erano ancora finiti.

Tramontata la Vuelta, il programma di Carapaz prevedeva il rientro a Plouay: una classica non proprio adatta alle sue caratteristiche, e infatti ha concluso al sessantacinquesimo posto a quasi quattro minuti dal vincitore, Sep Vanmarcke. Il Tour of Britain, la corsa successiva, sarebbe stata fondamentale per affinare la condizione in vista del campionato del mondo e delle classiche italiane: peccato che il visto sia arrivato troppo tardi, impedendogli dunque di partecipare alla breve corsa a tappe inglese. In un primo momento sembra a rischio anche la sua presenza ai campionati del mondo, dato che si tengono sul suolo inglese: ma questa volta tutto fila liscio, Carapaz è in gruppo ed è il propiziatore della fuga che caratterizza la prima parte della prova in linea dei campionati del mondo. Alla fine si ritira, ma almeno ha lanciato un segnale.

Carapaz cade nel criterium Profronde van Etten-Leur: dovrà dire addio alla Vuelta. ©Roel Klei, Twitter

Il sabato successivo, a quattro mesi dalla gioia dell’Arena di Verona, Richard Carapaz torna per la prima volta in Italia: si corre il Giro dell’Emilia, primo rodaggio in vista del Giro di Lombardia. I dubbi si moltiplicano: lo scalatore ecuadoriano inanella un ritiro dopo l’altro: al Giro dell’Emilia, al Gran Premio Bruno Beghelli e alla Tre Valli Varesine. C’è chi comincia a dubitare della sua presenza al Giro di Lombardia; in compenso sarà al Gran Piemonte, potenzialmente l’ultima sua uscita del 2019. Alla vigilia della corsa, tuttavia, i fumi delle polemiche avvelenano nuovamente la quiete di Richard Carapaz.

In un’intervista rilasciata a “La Gazzetta dello Sport”, Carapaz prende una posizione netta sui disordini che stanno sconquassando l’Ecuador: “Politicamente, è come se il mio paese regredisse. La crisi economica sta mettendo in ginocchio troppe persone e il politico di riferimento non si sta comportando nella maniera giusta”. Quando gli viene chiesto se si riferisce a Lenín Moreno, Carapaz non fa prigionieri: “Sì”, risponde perentorio. “Il prezzo del carburante e del trasporto pubblico è ulteriormente salito, lo stato è paralizzato e il popolo non ne può più. Ci sono manifestazioni e insurrezioni, c’è violenza e malessere”. Grazie alla vittoria del Giro d’Italia, Carapaz è diventato un eroe nazionale; le sue parole non cadono nel silenzio, anzi, hanno una eco mostruosa: vengono ascoltate, recepite, rilanciate. L’opinione pubblica si spacca: chi è con Carapaz e chi con Lenín Moreno.

“La gente soffre”, chiude lui. “E io corro, lotto e vinco per loro”.

Carapaz non partecipa al Giro di Lombardia, chiudendo dunque la stagione con un ritiro – il quinto consecutivo –  al Gran Piemonte. A “La Gazzetta dello Sport” ha raccontato d’essersi preparato a dovere: “Ci sono state tante vicissitudini e non è andata come speravo, ma fisicamente ero al 100%”, ha chiosato. Per farsi un’idea più precisa di Richard Carapaz bisognerà attendere il 2020: sta a lui dimostrare di non essere un comprimario, un corridore da un obiettivo all’anno, il classico sudamericano romantico proprio perché talentuoso e inaffidabile.

 

 

Foto in evidenza: ©The Cycle Collective, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.