Non possiamo più fare finta di niente: la sicurezza stradale riguarda tutti.
“C’è tanto lavoro da fare ma non preoccupatevi, sto lavorando per costruire le basi per il futuro. Per un movimento ciclistico competitivo, agguerrito, soprattutto in salute. Per salvaguardare i giovani che vogliono pedalare, per permettere a chi vuole muoversi in sella a una bicicletta di farlo in tutta tranquillità, senza rischiare di piangere la mancanza anche di uno solo di loro. La priorità di un paese civile è quella di dare la libertà a tutti di poter decidere come spostarsi, perché il ciclismo è uno sport che scorre lì dove scorrono bestie d’acciaio ben più ingombranti e ben più veloci delle biciclette. E per non trasformare una gioia in un’ecatombe, per assicurarci un futuro e non dover rimpiangere il passato o, peggio, ciò che poteva essere ma non è stato, le strade devono essere un luogo dove buon senso e rispetto devono andare di pari passo. La priorità della federazione ciclistica (…) non è quella di vincere medaglie, ma quella di permettere ai suoi tesserati di non morire pedalando”.
Vorremmo dirvi che queste parole vengono dal mondo delle istituzioni politiche e sportive del nostro paese. Vorremmo dirvi anche che colui che ha pronunciato queste parole ha sostenuto l’istituzione di corsi obbligatori di educazione stradale nelle scuole. Che la stessa persona si è battuta per avere le corsie ciclabili nelle strade ad alto scorrimento, il raddoppio delle zone 30 nelle città e l’incremento dei fondi stanziati per la sistemazione della rete stradale. Vorremmo poi dirvi che tutto ciò ha contribuito a ridurre quella terribile statistica, un morto sulla strada ogni trentacinque ore. Vorremmo, ma dobbiamo dirvi la verità. Tutto questo è successo, ma non qui. È successo in Germania tra il 2005 e il 2015. Quel discorso è stato effettivamente pronunciato, ma da un tedesco, l’allora presidente della Federazione Ciclistica Tedesca Rudolf Scharping.
Non che in Italia non si traccino bilanci sul movimento ciclistico. Anzi. Ogni qualvolta si presentano dei momenti ufficiali non si perde l’occasione di snocciolare numeri, di sottolineare la grande annata, l’aumento dei tesserati, la posizione migliore raggiunta nel ranking dell’UCI. E la sicurezza stradale? Quella statistica del morto ogni trentacinque ore, per intenderci. Non pervenuta. E i media cosa dicono, in merito? In molti casi si limitano a riportare quello che dicono le istituzioni.
Ogni tanto, invece, un affondo, tendenzialmente quando accade la disgrazia. In quelle occasioni, un trafiletto anche se a piè di pagina lo si trova. Ogni giorno si susseguono decine di notizie di ciclisti e pedoni travolti, ma niente: quei morti per i nostri mezzi di informazione sono spesso un lungo e freddo elenco stilato per ragioni di pura cronaca. Dovrebbe essere una voragine nella coscienza di ciascuno di noi. Qualcuno grida che la strada è di tutti, a partire dal più fragile, ma è la voce di un uomo che grida nel deserto – Marco Scarponi ne sa qualcosa.
La realtà è che in Italia siamo tutti estranei. Perché non ci si conosce, certo. Più spesso perché è comodo, tremendamente comodo essere estranei. Noi parliamo degli estranei che scelgono di rimanere tali per comodità. Perché degli estranei non corre l’obbligo di interessarsi, perché l’unico motivo per interessarsi degli estranei è la convenienza. Chi è estraneo è sottoposto solo alla voce della convenienza. Le nostre strade sono il regno degli estranei: persone collegate da una pura casualità che si contendono uno spazio lottando per conquistare una posizione davanti al semaforo, un parcheggio dall’edicolante. Persone che per dieci minuti di anticipo venderebbero l’anima al diavolo. Persone che gridano le peggiori cose dai finestrini delle auto, fra auto stesse, al ciclista, al pedone. Persone che non vedono i bambini. Automi che di fronte a tragedie che stravolgono intere famiglia aprono bocca e sarebbe meglio tacessero.
Lo fanno perché sono estranei a cui è capitata la sorte di essere dalla parte dei più forti, di coloro che stanno dentro a un veicolo che li protegge. Altri sono allo scoperto, a piedi, su una bicicletta. Da noi, chi è allo scoperto muore nell’indifferenza. Perché per non essere indifferenti bisogna sentire e gli estranei, spesso, scelgono di non sentire. Di non sentire il citofono, di non vedere i carabinieri che mostrano il documento di chi da poche ore non c’è più, di non vedere i figli, i genitori, i parenti, gli amici dell’estraneo che qualcuno ha appena ucciso. Gli estranei non sanno cosa voglia dire andare a riconoscere il corpo senza vita di tuo marito o di tua moglie, di tuo figlio o di tua figlia. Possono immaginare che disgrazia sarebbe se accadesse a loro, ma preferiscono non farlo, illudendosi che a loro non accadrà mai. Perché più fortunati, piu forti, più bravi, più attenti. E noi vogliamo davvero credere che a loro non accadrà mai. Vogliamo davvero sperarlo.
Spesso però purtroppo accade. E quando accade siamo tutti responsabili. Abbiamo contribuito tutti ad uccidere quell’uomo o quella donna. Perché sappiamo benissimo cosa andrebbe fatto, ma non lo facciamo. Perché ignoriamo chi continua a chiedere attenzione. Perché siamo pavidi. Perché stiamo zitti, perché non ci esponiamo. Perché abbiamo portato sulla strada, luogo di viaggio e di incontro, la legge della giungla e non quella dei giochi estivi dei bambini. Perché quello che non si merita va lasciato ad altri e la strada noi non la meritiamo.
Foto in evidenza: ©Parlamento europeo, Twitter