Perché è importante parlare di Bartali all’esame di maturità.
Forse l’incipit perfetto di quel tema su Gino Bartali sarebbe stato un invito alla disobbedienza. Non obbedite quasi mai o almeno non prima di esservi chiesti cosa voglia dire obbedire per il soggetto che quell’obbedienza la pretende. Sì, dal particolare al generale. Come quella delle nipoti del Ginettaccio che salivano in mansarda nonostante la nonna non volesse. Tutte le vecchie mansarde hanno un fascino ma quella di casa Bartali era speciale: quelle maglie, quelle coppe e quelle medaglie con inciso un nome e un cognome. Il suo. Nome e cognome di un “bastian contrario” come lo definì Oliviero Toscani e del resto quel “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” è lì a conferma. Non siamo dei visionari.
Da piccole le bimbe non potevano capire, però una cosa era chiara: quel nonno Gino non era come tutti gli altri nonni. La casa sempre piena di giornalisti, i continui viaggi, riconosciuto in ogni luogo, scritto sui giornali e intervistato in televisione. In mansarda non si sarebbe dovute salire ma disobbedire era, in fondo, un atto di bellezza. Per crescere con un ricordo in più. Quello di Lisa Bartali, ad esempio. Lisa, oggi, dice che suo nonno era, fin da ragazzo, un personaggio famoso che però non dava nemmeno per un attimo l’idea di esserlo. Gino Bartali si fermava anche ai semafori per parlare con i tifosi; nonno Gino invece, fra le mura di casa, era riservato, quasi introverso. Per cultura familiare e per carattere. Un ancestrale bisogno di proteggere quell’intimità, una netta scissione tra il ciclista ed il padre, il marito ed il nonno.
Non sarebbe poi stato difficile essere diverso per Bartali: tre Giri d’Italia, due Tour de France e classiche come piovessero. Un campione. E già questo poteva dare alla testa. Non un campione per caso in un’epoca di magra: un campione che rivaleggiava con Coppi. Coppi il mito. Coppi quasi imbattibile, vero, ma Bartali le cose migliori le tirava fuori da quel carattere impastato di “Toscanità“, così come disse Adriano Dezan.
Di più. Un unificatore: la vittoria al Tour de France del 1948 era ben più di una vittoria sportiva, era un tratto di penna ad unire un Italia in angoscia. Il 14 luglio 1948 l’attentato a Palmiro Togliatti in Italia; il 14 luglio 1948 il giorno di riposo in Francia. Il giorno dopo vince Gino Bartali, il giorno successivo per l’ennesima volta Bartali e questa volta anche in giallo. Da Aix-Le-Bains a Parigi il fiorentino non se la leverà più quella maglia. La notizia travalica i confini di un Tour de France che con i confini sembra giocare: il disegno del Tour 1948 è, in sostanza, il contorno del territorio francese, traslato di qualche centinaia di chilometri nell’entroterra.

L’uomo è carne, avido di sensazioni e goloso di ascese a troni e lussurie: chi non sarebbe ingolosito dall’idea di diventare un divo, un eroe? Bartali quando vince il Tour de France è già un eroe sportivo. Fosse vanitoso, fosse bramoso di fama sfrutterebbe la popolarità per procurarsi una carriera post-ciclistica ma Bartali non vuole essere che ciclista. E uomo. I ciclisti corrono in bicicletta e rispondono ai tifosi come fossero uomini di strada perché i ciclisti vengono dalla strada. Dalla terra. Gli uomini hanno anche altro a cui pensare: per esempio gli imperativi morali, quelli di cui si risponde solo davanti a Dio. Così diceva Bartali. Un uomo-ciclista è un uomo che sta in bicicletta nelle buone e nelle cattive sorti non scordandosi mai che scesi da quella bici non sono le medaglie e i trofei a contare ma i fatti. Nemmeno le parole contano più. Per questo non vanno sprecate. Poche chiacchiere e pedalare. Dove pedalare significa concretezza.
A Bartali non piaceva si parlasse di lui. Le parole sono aria tagliata a fette: di concreto c’è poco. Probabilmente a Gino Bartali non sarebbe piaciuta tutta la popolarità. Non gradiva i titoli di prima pagina sui giornali e nemmeno i troppi complimenti. Se Gino Bartali non fosse stato il ciclista che è stato sarebbe stato un uomo di casa, quello che ha potuto essere solo da lontano. Vicino a moglie e figli: per vederli crescere quei bambini. Il papà di Lisa Bartali si era innamorato della bicicletta nonostante la bicicletta di Ginettaccio potesse vederla meno della gente assiepata in strada, tanto quel padre era sempre in viaggio per lavoro. Poteva essere un segno del destino, corroborato da doti rilevanti. Poteva. Per qualche poeta o scrittore fantasioso. Non per Gino Bartali.
“Studia. Diplomati e poi vai a lavorare. È meglio lavorare che fare il ciclista.”
Un lavoro imposto, forse, da assicuratore. Se non è concretezza questa. Concretezza e cura, perché il ciclismo è uno sport pericoloso. Imposto per essere l’uomo che lui non aveva potuto essere. Per essere più papà che padre: papà è più intimo, padre è più da “generale”. Nel caso di Bartali l’idea era di essere babbo: un termine decifrabile solo da quegli amabili e a tratti odiosi toscani di campagna. Uomini di ferro.
Così era Bartali per “La Gazzetta dello Sport” quando vinse il Tour de France. Il ferro è duro, freddo, impassibile. Come Bartali poteva sembrare. Probabilmente così freddo non era. Candido Cannavò potrebbe ben raccontarlo: quelle lacrime, quell’incredulità alla camera ardente per Coppi. “Pianse e pregò alla sua maniera”, scrisse il direttore de La Gazzetta. E in quel “alla sua maniera” c’è ancora tanto di quel benedetto toscano. Pregava pure in un modo tutto suo questo Bartali, avranno detto i lettori. Duro sì. La stessa durezza che serve per scalare montagne sulle strade degli anni ’40 rifilando decine di minuti agli avversari. La stessa che serve per superare la perdita di un fratello. La stessa che è indispensabile per fare il bene senza oscillare come bandieruole al vento.
Gianni Mura stima che Bartali abbia salvato più di 800 ebrei, con documenti falsi e uomini nascosti in casa propria. Rischiando la propria pelle. Nessuno sapeva nulla. Ai figli qualcosa è stato accennato solo dopo. La moglie poteva intuire degli strani spostamenti ma da lì a ricostruire una vicenda simile ce ne passa. I nipoti di quella storia non hanno mai sentito raccontare nulla: ricordano di essere cresciuti a Giri d’Italia e Tour de France più che a cartoni animati e libri illustrati. Ma anche a loro piaceva così.
Lisa Bartali porta quella storia nelle scuole, porta le biciclette nelle scuole e mostra come venissero nascosti i documenti. Scrive e racconta di nonno con un unico monito: “A me fa piacere parlarne: spero però si faccia un uso proprio del nome Bartali. Non vorrei fosse snaturata l’immagine di mio nonno: mio nonno era una persona umile, semplice e schietta. Non mutiamolo a nostro piacimento, lasciamo che sia la nostra autentica fonte di ispirazione nel nostro quotidiano. Conserviamone, pur nel celebrarlo e ricordarlo in modo consono, un’immagine concreta e non idealizzata. Gino è senza dubbio stato un eroe sui pedali, ma prima di ogni altra cosa è stato un uomo. Un uomo che ha scelto il bene in ogni momento della sua vita.” Nonno Gino probabilmente non avrebbe scritto nulla ma se avesse deciso di farlo lo avrebbe fatto con questo spirito. Contro ogni mistificazione e abbellimento ad altri scopi. Nessun inganno della ragione per raccontarsi belle realtà ché di realtà ne esiste una sola, seppur talvolta non bella. Bartali, in quella realtà, era immerso. Lui che non rivelò il bene per proteggere gli ebrei, certo, per proteggere la propria famiglia, sicuramente, ma anche per non balzare da solo agli onori della cronaca. Di Gino Bartali nella “rete” di quelli missioni ce ne erano diversi. Forza e coraggio identici. Nella vita, non in bicicletta. Ma a quelli che maneggiano parole sarebbe tornato comodo parlare solo di lui. Il nome grosso fa notizia, si sa. Non poteva permetterlo. Non era giusto. L’importante era non fare torto agli altri: il bene, del resto, lo si era fatto e Dio lo sapeva.

Forse anche per quello dall’America arrivano messaggi ai familiari che lo chiamano “The hero”. L’eroe, ovvero colui che agisce a discapito di ogni vantaggio o svantaggio personale. Ed è molto bello ma togliamo ogni dubbio: a Bartali non sarebbe piaciuto essere chiamato così. Lui era schiettamente Uomo. Se il termine uomo sembra riduttivo è solo perché se ne è persa la reale contezza, la concreta dimensione. Quella fatta di disobbedienze. Quella fatta di morale che sovrasta la comodità. Quella che è padrona di sé ed al servizio del prossimo.
Inserire questa traccia tra quelle proposte per la prova di italiano all’esame di maturità è un segnale chiaro: in un Paese che ha una cultura dello sport e sullo sport sviluppata in modo – con un eufemismo – disomogeneo e destrutturato, inserire il trionfo sportivo e umano di Gino Bartali può essere sintomo di un’esigenza radicata. Caso unico in Italia, lo Sport mescolato alla Società e alla Storia arriva a far parte di uno dei momenti scolastici e istituzionali più importanti, dove vengono formati i cittadini non di domani, ma già quelli di oggi.
E proprio oggi si sente sempre forte il bisogno che è proprio di ogni generazione di essere ispirati da esempi, e da Donne e Uomini da imitare e seguire, più che da ordini e “si deve/si dovrebbe”. Non serviva metterlo tra le tracce dei temi di italiano per dare a Bartali questo valore aggiunto, ma certamente così aumenta il peso e la responsabilità di quello che facciamo raccontando di sport e di ciclismo, come si allarga la colpa di chi, esposto all’esempio, lo snobba indifferente.
Forse per questo Lisa Bartali parla di storia talmente bella da sembrare una favola, e i bambini delle scuole chiedono come abbia fatto a fare tutti quei chilometri in bicicletta, increduli che un uomo solo possa fare tanto. Perché i bambini sanno che Bartali era un uomo e gli uomini non hanno altro se non ragione, forza e volontà. E coraggio, molto, e paura, anche. Ma la Storia di Lisa non è una favola perché, che un Uomo possa fare del Bene non è fantasia, è Realtà.
In copertina: Di tetedelacourse – Madonna di Ghisallo – Gino Bartali, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39585394