Davide Formolo ha sempre messo la bicicletta al centro del suo mondo.
Davide Formolo ha la tipica esuberanza del ventesimo secolo. Parlantina sciolta e frizzante come fosse nato durante il boom economico degli anni sessanta e precipitato un po’ per caso nel crepuscolo dei giorni nostri. Ha il volto di un bambino; lo senti chiacchierare e te lo immagini come uno di quei ragazzi con il gel tra i capelli che girano per i corridori della scuola dicendo “figo”. Diretto, conciso, spigliato, a testa alta, sicuro di sé, certamente non se la prenderà per il paragone.
Anche perché “figo” non arriva per caso: ce lo dice lui. Racconta di come sia stata la prima esclamazione dopo aver passato il traguardo al Giro d’Italia 2015. Il primo vagito di un corridore che negli anni ha imparato a farsi amare, un po’ per la sua disponibilità verso i tifosi, un po’ per la sua indole e quel suo modo di conquistare le poche ma buone, come le definiamo più volte durante la nostra chiacchierata, vittorie. «È vero che vinco poco, ed è sempre stato così anche nelle categorie giovanili. Ma quando lo faccio è in grande stile; è un segno che mi ha sempre contraddistinto: quando vinco, stravinco. Forse perché sono lento allo sprint e mi devo inventare qualcosa. E poi, come si dice? In una volata a tre, faccio quarto».
La sua prima vittoria da professionista Formolo la racconta senza peli sulla lingua, a modo suo, tra un’interruzione e l’altra della telefonata per via del segnale ballerino. «Qui a Montecarlo altro che 5G», scherza.
«Era il mio primo Giro; ero giovane e non avevo alcuna pressione da parte della squadra, pensavo solo ad andare a tutta. La mattina della quarta tappa stavo da dio. Vado in fuga e mi dico: oggi gliela faccio cagare a questi qui». In quella fuga, tra l’altro, c’erano individualità di spessore del gruppo, di quelli che potrebbero inghiottirti solo a guardarne palmarès e carta d’identità; ma un giovane Formolo si guardò bene dal farsi intimorire. Clarke (secondo di tappa e che sul traguardo esulterà convinto di aver vinto), Visconti, Pellizotti, Kreuziger erano alcuni dei presenti che si mise dietro, mentre il gruppo di Aru e Contador, sull’ultima salita, rischiò di piombargli addosso.
Formolo, però, su quelle strade che portavano a La Spezia fu roccia inscalfibile. «Mi chiamano così perché non mollo mai, lo sapete tutti. Sono competitivo e lo ero sin da ragazzino, ma questo perché mi piace fare fatica. La dedizione e la riconoscenza sono la parte che preferisco di questo sport. Il ciclismo non ti regala nulla ed è per questo che gli sei fedele; non c’è niente di più bello di quando soffri e fai fatica, ma arrivi all’obiettivo che ti sei prefissato. Diciamolo meglio: la sofferenza è il mezzo che uso per realizzarmi». E a lui, giustamente, piace così.
Senza filtro
«Ci sono dei momenti in cui ti chiedi: che cazzo sto facendo? Soprattutto quando sei giovane e non arrivi agli obiettivi prefissati e a volte ti viene lo sconforto e ti sembra tutto assurdo». È trasparente, Formolo, quando gli domando qualcosa sui momenti difficili vissuti in bicicletta. E che sia uno spontaneo e con pochi filtri non lo raccontiamo certo noi, è cosa nota. Così come la sua freschezza ai microfoni a fine gara fa parte del suo corredo genetico. È fatto così e basta, se vogliamo dirlo in modo asciutto come il suo fisico pronto per andare a caccia di salite.
In quel suo esordio al Giro del 2015, che gli regala una delle sue più grandi gioie in carriera, sconta normali peccati di gioventù – mancanza di esperienza, di fondo e di recupero – attraverso una giornata che difficilmente dimenticherà, quella che portò il gruppo da Gravellona Toce a Cervinia. «Diciannovesima tappa, per essere al primo Giro non ero nemmeno male in classifica (ventiduesimo, N.d.A.), ma sono saltato in aria. Sin dal mattino avevo le gambe senza energia, come se avessi appena finito la tappa del giorno prima. È stata la giornata più dura della mia carriera». Peccati di gioventù che Formolo pagava anche nella disattenzione in fase di preparazione e alimentazione. «Quando sei giovane vuoi fare tutto di testa tua e allora ti alimenti male e ti prepari peggio, magari pensi che ti possa bastare andare avanti a insalata per tenere a bada il tuo peso: niente di più sbagliato. Oppure ti alleni troppo e male e combini un macello».

Davide Formolo, però, a dispetto dei suoi modi sempre gentili e di quel tono scherzoso ma mai invadente, è un uomo con le palle al posto giusto. È umile, come le sue origini, esemplare della tipica novella di provincia: dai campi alla bici, con il lavoro sempre a fungere da asse portante. «Vengo da un paesino in Valpolicella e se non avessi fatto il ciclista, forse, avrei fatto il contadino». Lì ha mosso i primi passi, figlio di un camionista che per quarant’anni ha trasportato frutta e verdura su e giù dalla Germania e dall’Austria e che non passava domenica senza fare sport col proprio figlio. «Nuoto, corsa, ma io ho sempre voluto andare in bicicletta». Gli altri sport erano una scusa per non stare mai fermo e per preparare meglio le sue scorribande su due ruote. Anche se ammette candidamente che dal punto di vista agonistico «all’inizio non ottenevo alcun risultato».
Dalle sue parti si sfidava con gli amici e quando non c’era scuola andava in giro, dalla mattina fino al tramonto, sempre su quel mezzo a cui è rimasto fedele sin dall’inizio. Che fosse una mountain bike o una bici normale, per lui non faceva differenza: la bici è sempre stata la scusa per tenere a bada la sua irrefrenabile voglia di crearsi il suo spazio, di fare attività, di stare con gli amici. «Se non fossi diventato un corridore, anche adesso sarei lo stesso in sella a una bici. Stare con lei significava stare con gli amici, sfidarli, batterli e poi mangiare un gelato assieme: spirito di aggregazione e senso di appagamento. Il massimo».
Crescendo, mentre i suoi amici prendevano altre strade, Formolo capiva di essere tagliato per il ciclismo e lo faceva anche leggendo le storie di quei corridori che prima guardava da fuori e poi ha imparato a conoscere vivendo diverse esperienze con loro. «Leggendo il libro di Ivan Basso mi sono ritrovato nei capitoli in cui parla della sua carriera giovanile. Racconta di quando da giovane, gara dopo gara, si sentiva sempre più coinvolto rispetto ai suoi compagni di squadra: è la stessa cosa che ho vissuto io. Più andavo avanti e più la faccenda si faceva seria e più mi piaceva. I sacrifici sin da ragazzo non mi hanno mai pesato: a letto presto la sera, alimentazione sana. Più correvo e più mi sentivo competitivo. E quando non arrivavano i risultati mi arrabbiavo, voleva dire che dentro di me cresceva lo spirito agonistico per andare avanti».
Uomini, miti e tricolori

Formolo è educato, come quei tratti che ne compongono il viso, delicato quando tra una interruzione e l’altra mi chiede sempre scusa, ed è particolare anche nello scegliere alcuni personaggi a cui è legato. Se deve fare il nome di un capitano per il quale si è speso volentieri, infatti, non ci pensa molto prima di dire Urán. «Rigo è incredibile, un vero esempio per come vive la sua vita e il ciclismo. Da lui impari tanto, quello che apprezzo di più è che stando con lui non impari solo cosa vuol dire fare il corridore, ma da lui impari tanto sulla vita. La sua filosofia, e in generale quella dei ciclisti colombiani, mi piace».
Mentre fuori dal ciclismo è affascinato dalla figura di Damiano Tommasi. «L’idolo della nostra vallata. Ha una testa incredibile, si è sempre mosso per il sociale e pensate che a fine anno, quando il mio fans club organizza la cena di fine stagione, lui è sempre presente. È il classico esempio di come una persona conosciuta possa restare umile, come le sue origini».
Se deve fare il nome di altri corridori sceglie Oss e Sagan «perché sono i più matti», mentre resta legato a Villella e Bettiol: «siamo cresciuti insieme; dilettanti, poi tre anni in squadra tra i professionisti, spesso assieme in ritiro»; ma poi ogni tanto anche Formolo rientra nei ranghi e cita alcuni nomi più standard quando parla di colleghi particolarmente forti. «I soliti noti: Froome e Contador», anche se l’azione che più gli è rimasta impressa è quella di un altro corridore devastante in salita; lui che, come confidò anni fa in un’intervista di Bicisport, più che passista-scalatore vorrebbe essere uno scalatore puro. «Quintana in una tappa di montagna alla Vuelta. Mi pare fosse il 2016. Fu impressionante». Ma più di ogni altro, c’è un corridore, già citato, che lo ha ispirato sin da inizio carriera: Ivan Basso.

«Pensare che uno così mi ha fatto da gregario è qualcosa di incredibile», racconta Formolo, prendendo fiato per rispondere e lasciando passare sempre qualche attimo tra una riflessione e l’altra. «Nella mia prima corsa da professionista, a Donoratico, la squadra decise che bisognava correre per me. La mattina alla partenza Ivan venne a chiedermi come stavo: voleva assicurarsi che tutto filasse liscio. Mi ha fatto da chioccia, eravamo anche fissi in camera assieme».
Le vittorie di Formolo si contano su una mano (tre), l’ultima però gli ha regalato una maglia che ha portato in giro nel 2019 – in questo 2020 si vedrà -, simbolo di una corsa che gli è sempre stata molto cara. «Il mio secondo posto al campionato italiano tra i dilettanti, nel 2012 dietro Bongiorno, mi valse un contratto tra i professionisti; il podio agli italiani del 2014, invece, mi valse la profezia di Nibali. Ero sul podio, arrabbiato (in realtà non dice proprio così, N.d.A.), lui se ne accorge e mi fa, sorridendo: “ragazzo, non temere: questa maglia un giorno sarà tua”. Ma poi in quella corsa, io, giovane sbarbato praticamente all’esordio e in uno squadrone con tre grandi corridori come Caruso, De Marchi e Basso a mia disposizione, dato che sin dal mattino il piano era quello. Poi in gara stavo bene, nonostante la grande emozione: per la prima volta a scontrarmi con gente come Nibali, Scarponi, Pozzovivo. Però quel secondo posto mi brucia ancora oggi, se devo essere sincero».
Il cerchio si chiuse quasi un anno fa con “la cavalcata” – Formolo la definisce così – che gli è valsa la maglia tricolore, «oltre a farmi venire in mente le parole di Nibali di qualche anno prima».
Quella sofferenza lunga tre settimane

In Italia, quando si scrive di ciclismo, il centro del discorso ha un periodo ben preciso che va da maggio e arriva fino a luglio, e due corse ben circoscritte: Giro d’Italia e Tour de France. Nella narrazione – ma anche nel cuore dei tifosi, lo ammette lo stesso Formolo – conta più un piazzamento in classifica in un grande giro che un podio in una grande classica, inutile girarci intorno. E allora Davide anche in futuro vorrebbe continuare a lottare per un piazzamento importante. Le grandi corse a tappe, per lui, sono sempre stato un panettone con i sassi al posto dei canditi: ne ha disputate otto, cinque volte il Giro d’Italia, tre la Vuelta, mai al via del Tour de France.
Il miglior risultato è il nono posto in classifica generale in Spagna nel 2016, a cui hanno fatto seguito due decimi posti al Giro nel 2017 e nel 2018. «Ogni volta ho una giornata no, mi manca qualcosa, oppure ho qualche problema fisico: al Giro 2018 andavo forte, ma sull’Etna cado, perdo cinque minuti e passo la corsa a lottare con un problema al piede. E poi nei grandi giri, se vuoi puntare alle prime cinque posizioni, deve essere tutto perfetto e devi avere una squadra che ti supporta. Ci sono state occasioni in cui se avessi avuto un compagno vicino nei momenti di difficoltà, invece di dieci minuti ne avrei persi al massimo un paio e magari bastava per un bel piazzamento».
Lo stuzzico, gli dico che per me dovrebbe abbandonare l’idea di fare classifica e concentrarsi sulle tappe. «Questa è la cosa che mi stimola di più: i tifosi la pensano così e ci può stare, ma ve l’ho detto, sono Roccia e voglio continuare a testarmi nel fare classifica. Pochi ormai credono in me nei grandi giri, nonostante abbia buoni numeri, ma il ciclismo ti dà la possibilità anno dopo anno di migliorare e di ottenere i risultati che cerchi. Prendi Fuglsang: ottimo corridore fino al 2018, lo scorso anno volava. O Evans, che ha vinto un Tour a trentaquattro anni. Siamo tanti buoni corridori e prima o poi arriva l’anno giusto».
Presente e futuro

Quello che lo spaventa di più nel ciclismo, mi confida, è alzarsi al mattino di una gara e non sentirsi al cento per cento. «Perché noi corridori siamo sempre tirati come corde e basta un nulla per compromettere tutto». Mentre la prima cosa che vorrebbe fare appena finita una corsa sarebbe mangiare una pizza, ma solo «dopo aver alzato le mani sul traguardo, s’intende».
Inevitabilmente, poi, la discussione tocca anche quello che è successo all’UAE Tour e in generale su come sta cambiando il volto della stagione. Formolo ora fa una lunga pausa e tira un sospiro. «È stata lunga lunga restare in quell’albergo; adesso per fortuna sono a casa con mia moglie, ma da allora a oggi non è cambiato molto. Ora prendo tutto con calma e non nego che sapere che forse si correrà fra qualche mese e non subito mi tranquillizza; allenta la tensione, anche perché, come diciamo noi, se ti fai battere dalla pressione le cose vanno peggio e rischi di fare l’uovo. E poi sinceramente la stagione mi pare bella che compromessa ed è inutile fare calendari o programmi: non sappiamo come sarà la situazione fra qualche mese».
E allora Formolo non si smentisce e preferisce alleggerire raccontando un simpatico aneddoto accaduto proprio nelle prime tappe. «All’UAE Tour è accaduto un fatto che non avevo mai vissuto. C’era una gara di cavalli di fianco a noi: quattro, cinque di loro a bordo strada che andavano esattamente come noi. E lo sai che mia moglie, quando mi ha conosciuto, diceva che noi ciclisti sembriamo dei cavalli ? Corriamo, sudiamo e facciamo fatica esattamente come loro». D’altronde è lo stesso Formolo ad avermi parlato di cavalcate nel fotografare le sue vittorie.
Prima di chiudere gli domando dove si immagina tra dieci anni. Stavolta non perde tempo nel rispondere; torna a essere deciso, brillante, sicuro di sé. «Tra dieci anni? È un po’ troppo in là per pensarci: risolviamo un problema alla volta. Prima c’è qualche corsa da vincere, magari la Liegi, anche se non chiedermi perché c’è tutta questa affinità: non so, mi piace e basta». Conciso, chiaro, a testa alta. Se Vendrame è il Joker del gruppo, Davide ricorda un punk: fedele alla linea.
Foto in evidenza: ©Uae Team Emirates, Twitter