Quella di Enzo Vicennati è una preziosissima lezione di giornalismo.
Enzo Vicennati nasce il 26 dicembre 1968 ad Ascoli Piceno. Cresce nelle Marche, Liceo classico e poi Ingegneria. Nel tempo libero pedala e legge Bicisport e Cicloturismo, riferimenti di un’epoca. Durante il servizio militare, sarà proprio una lettera inviata al direttore Sergio Neri a propiziare una collaborazione giornalistica con quelle riviste. E sarà un notte di maggio del 1991 a donargli la consapevolezza di voler fare quel mestiere. Quasi trent’anni di Compagnia Editoriale, conoscendo campioni e gregari, raccontandone storie con l’umanità che gli è riconosciuta in tutto l’ambiente ciclistico, stabilendo talvolta rapporti di amicizia duraturi: su tutti quello con Marco Pantani e Michele Bartoli. Enzo Vicennati non si è mai montato la testa: è rimasto vicino alla propria gente e alle tematiche da sempre care; la sicurezza stradale e la tutela dell’ambiente, ad esempio. Nel 2016, in seguito al terremoto di Centro Italia, promuove la Pedalata di solidarietà, Noi con Voi: per riscoprire il valore della condivisione solidale. Scout fin da bambino, crede in un valore: ogni esistenza è preziosa, ancora di più se riesce a lasciare il mondo un poco meglio di quanto lo abbia trovato.
Enzo, la tua carriera giornalistica prende le mosse in una notte di maggio del 1991. Vuoi raccontarci?
Sin da ragazzino sono sempre stato un lettore di Bicisport. Quell’anno ero a fare la naja a Trento e un giorno decisi di scrivere una lettera a Sergio Neri, il direttore. Un paio di mie lettere erano già state pubblicate nella sezione lettori di Cicloturismo. Quella lettera però era diversa: in quella lettera mi proponevo come giornalista. La proposta non era molto chiara: l’idea principale era quella di realizzare racconti di itinerari da percorrere in bicicletta. La parte agonistica era in secondo piano per me, all’epoca. Mi risposero convocandomi a Roma: era il 30 aprile 1991. Conobbi così persone di cui avevo letto soltanto: Sergio Neri e Tony Lo Schiavo.
Inizialmente rimasero colpiti dalla mia persona ma non c’era posto. Successivamente venni richiamato. Lo Schiavo mi propose un mese di prova, il direttore me ne propose tre e al momento dell’incontro a Roma la proposta definitiva fu quella di un anno. Mio padre, scomparso nel 1998, ai tempi aveva un’impresa che progettava e realizzava impianti di condizionamento e riscaldamento per grandi strutture e credo immaginasse che, completati i miei studi di ingegneria, sarei poi entrato in azienda. Quella sera di maggio, invece, di rientro da Roma, con il pullman che arrivava ad Ascoli alle 23:45, salendo in auto gli dissi subito di aver accettato questo periodo di prova.
I miei genitori non la presero bene. Io partii il cinque gennaio dell’anno successivo per Roma, iniziando il periodo di prova il 7 gennaio 1992, sapendo che loro non mi avrebbero sostenuto economicamente. Per fortuna io a Roma avevo una zia che mi ha ospitato per i primi quattro, cinque mesi. In realtà, ripendosandoci oggi e ragionando da genitore, credo quello sia stato il loro modo di mettermi alla prova per capire quanto ci tenessi realmente. Iniziai a viaggiare già il primo anno: il primo servizio da inviato fu alla Settimana Internazionale di Sicilia. Seppi poi dal barbiere di Ascoli che ogni volta che usciva Bicisport mio padre lo comprava e andava a mostrare gli articoli del figlio. Lui non me lo ha mai detto, ovviamente: era un tipo abbastanza introverso e orgoglioso.

Cosa provi ripensando agli inizi, sapendo poi com’è andata proseguita la tua vita?
Non so. Sono cose che ti rimangono addosso e in ogni caso te le porti dentro finché campi. Per me è così e sarà così. Nel 1996 mio padre si è ammalato e nel giro di un anno e mezzo un tumore ce lo ha portato via. C’era un’impresa che restava lì. Lo confesso: per diverso tempo ho avuto fortemente la tentazione di mollare tutto qui e di prendere in mano l’azienda. Tutta questa voglia di entrare in un’azienda che comunque era lontano anni luce dal mio lavoro e dal mio sentire non l’avevo e quindi l’ho venduta. E devo dire che vendere l’azienda che tuo padre aveva realizzato in tutta una vita ed in cui vedeva anche te è molto pesante. Questo resterà per sempre con me. Sarà un dubbio che non riuscirò mai a togliermi.
Com’è stato accolto il giovane Enzo Vicennati dal mondo del giornalismo? Parliamo dei colleghi della tua redazione ma anche dei colleghi di altre testate.
Scinderei i due ambiti: quello della Compagnia Editoriale e quello esterno. A Bicisport ho trovato accoglienza e disponibilità. Per esempio, pensavo che all’inizio, proprio perché ero un novellino, non mi avrebbero mai affidato servizi da realizzare in trasferta. Invece successe. È sempre stata la filosofia di Sergio Neri: prendere il giovane e buttarlo nella mischia per vedere come si gestisce, come risponde alle responsabilità affidategli. Fuori, invece, era un ambiente molto più rigido di quanto non sia adesso. Io mi ricordo che osservavo quasi con deferenza gli inviati de La Gazzetta dello Sport perché se ne stavano sempre per i fatti loro, legavano solo tra loro, parlavano con delle radioline. Sembrava una squadra speciale, non esagero.
Ora è tutto molto più alla mano. Quando ho cominciato io bisogna rispettare una gerarchia, ma ormai parliamo di quasi trent’anni fa. Ci sta che il mondo sia cambiato, ma non è solo questo. Una volta c’erano personalità molto forti: il capo del ciclismo di allora era Zomegnan, il Corriere dello Sport aveva Evangelisti e Cabras, c’era Beppe Conti che ancora lavorava a Tuttosport con Viberti. C’erano veramente dei bei nomi in giro e soprattutto c’erano tanti quotidiani. Io mi ricordo che la prima volta che andai in Belgio per seguire le classiche delle Ardenne trovai tutti i quotidiani italiani con il loro inviato. Adesso ti basta la metà delle dita di una mano per contare i giornalisti italiani alle corse.

Proviamo a confrontare il mondo di trent’anni fa con quello di oggi. Immaginiamo un giovane che si approccia oggi al mondo del giornalismo.
Oggi l’accesso è sicuramente più facile: il web, infatti, ha aperto le porte a migliaia di nuove realtà editoriali. Queste realtà non necessitano di costi enormi, costi di impresa che invece si trova a dover sostenere una realtà editoriale di altro tipo. Secondo me è necessario capire quale percorso faranno i giovani che entrano adesso. Io sono entrato, ho fatto un anno da collaboratore esterno e poi grazie al contratto giornalistico ho potuto costruirmi una professionalità e anche una posizione di un certo tipo nella vita. Ho potuto scegliere tra l’azienda di mio padre ed il lavoro perché era un lavoro già ben retribuito.
Oggi un ragazzo quanto viene pagato dai vari siti? Quali prospettive ha? Tutti quelli che entrano potranno avere una carriera anche redditizia dal punto di vista economico, oppure saranno costretti a fare il giornalista come secondo lavoro perché, alla fine, il primo lavoro è quello che li permette di prendersi le ferie per andare a seguire il Giro d’Italia? Prima l’ambiente era più chiuso ma eri sicuro che, una volta entrato, potevi pro seguire in un certo modo. Oggi ci sono maggiori possibilità, ma mi chiedo con quali garanzie per chi si impegna direttamente e con quali garanzie di qualità dell’informazione per i lettori. Da un lato entrano molti ragazzi motivati, che a volte mettono in difficoltà anche noi che ci siamo da tanti anni; dall’altro ci si chiede da dove siano saltare fuori certe persone.
Da qualche anno sono il rappresentante per l’Italia della Igc, l’Associazione Internazionale dei Giornalisti di Ciclismo, e spesso mi arrivano richieste da persone che non ho mai visto e che non conosco e allora io mi chiedo se queste abbiano una ragione per stare in quest’ambiente. A questo proposito vorrei raccontare un fatto personale.
Prego.
Una delle prime volte che entrai negli uffici Bicisport c’era una corsa in televisione. Tutti rimasero stupiti dal fatto che io guardando le immagini individuassi i corridori prima dei telecronisti: è chiaro che quando tu sei giovane ed il ciclismo è il tuo hobby preferito conosci ogni dettaglio. Questo per dire che ci sono senz’altro dei ragazzi con un’ottima base, ma che ce ne sono altrettanti che non dovrebbero far parte di questo mondo. Non so se questa facilità di accesso sia un bene o un male: c’è la volontà di costruirsi una carriera di un certo tipo oppure spariranno entro qualche anno? Ci sono siti che lavorano bene e riescono a pagare stipendi e siti che sfruttano la passione dei ragazzi. Questo è un male. Io sono convinto che tra i dubbi di mio padre e di mia madre ci fosse il timore che io avessi potuto incontrare un “bandito” che si fosse approfittato della mia passione, che non mi avrebbe mai dato una lira, lasciandomi in mezzo alla strada dopo pochi anni. In questo modo il loro figlio avrebbe perso il treno per la formazione, per lo studio e per l’azienda. Credo che oggi questa sia una preoccupazione più che legittima.

Se oggi tuo figlio venisse da te esprimendo il desiderio di fare il giornalista, quale sarebbe la tua risposta?
La mia risposta sarebbe un sì, senza dubbio, che si tratti di ciclismo o meno. Qui da noi continuiamo ad assumere gente con contratti di prova. Ovvio che i contratti di oggi sono più leggeri di quelli di una volta: i tre ragazzi che sono entrati negli ultimi anni guadagnano meno di quanto guadagnavo io alla loro età, ma questo perché sono stati rimodulati i contratti. Restano comunque contratti veri. A mio figlio direi solamente di valutare attentamente la situazione. Se dopo qualche anno non si concretizza nulla, gli direi bravo per averci provato ma forse è il momento di cercare qualcos’altro.
Io al Giro d’Italia vedo tanti giornalisti e mi chiedo: “Siamo tutti uguali?”. Siamo tutti amici, certo, ci si vuole bene, ma non siamo tutti uguali. Il tempo di approfondire che può avere un giornalista non è lo stesso di una persona che deve fare quel lavoro nei ritagli di tempo. Io ricordo quando fui mandato nell’albergo di Bugno ad un Giro del Lazio. Entrai in camera sua ed era mezzo steso sul letto a fare quattro chiacchiere con Gianfranco Josti, ai tempi inviato del Corriere della Sera.
Mi ricordo con quanto “finto nonnismo” fui trattato, dico finto perché Gianfranco lo faceva apposta e infatti siamo ancora ottimi amici. Io però ero il ragazzino e lo stesso Bugno, nel parlare con me, si vedeva che assumeva un atteggiamento diverso: mi prendeva le misure e si concedeva con riserva perché non sai mai chi hai di fronte. Pensiamo ai campioni di oggi: Nibali, che si trova circondato da decine da persone che magari non vede mai o vede per la prima volta, con quanta facilità si concede? E perché dovrebbe farlo? Il mio grande dubbio è questo. Fermo restando che più si parla del ciclismo e meglio è.
Tu non hai mai pensato di occuparti di altri settori? Penso alla cronaca piuttosto che ad altri sport.
No. Io ho avuto la fortuna di trasformare la mia passione in un mestiere. Forse, o anche senza forse, mi sarebbe piaciuto occuparmi di ciclismo in altre realtà. Per tanto tempo ho sognato di lavorare in qualche quotidiano. Questa cosa non è mai andata in porto, non so se per limiti miei, tempismo sfortunato o logiche che trascendono tutto il resto. Mi sarebbe piaciuto perché il mensile dopo tanto tempo ti dà gli stessi ritmi, bene o male ti trovi a fare cose simili ogni anno. Le sollecitazioni del quotidiano, che ogni giorno ti propone un racconto diverso, probabilmente sono molto più gratificanti. Però, allo stesso tempo, hai degli spazi diversi e non puoi approfondire come vorresti.
Hai scritto: “Non so fino a dove mi porterà e quando a lungo andrà avanti (questa strada). Ma quando sento di aver finito la spinta, penso alle loro parole (dei genitori, n.d.r) di quella notte di maggio del 1991 e mi rimetto a pedalare”. Quando e perché finisce la spinta?
Il contesto cambia, il contesto non è mai uguale a se stesso. È complicato. La spinta si esaurisce perché per i primi anni hai intrapreso un cammino ricco e travolgente, e poi, col tempo, rischia di subentrare una routine. Sarebbe bello poter dare sempre di più la propria impronta, ecco. Ad un certo punto, invece, ti rendi conto che sei in un’azienda che appartiene ad altri ed il tuo ruolo è un altro, ben preciso, e devi fare quello che ti viene chiesto. Non è detto che questo debba per forza far svanire la spinta, però sicuramente qualche effetto ce l’ha. Io tante volte penso a mio padre, che era padrone della sua azienda, e mi dico che probabilmente aveva meno limiti di quelli che potrei avere io oggi.

Possiamo dire che è una spinta che viene fermata o comunque rallentata proprio dal desiderio represso di volerla potenziare?
Assolutamente. Se io fossi il direttore del giornale per il quale lavoro, il giornale sarebbe diverso: meglio o peggio non mi permetto di dirlo, anche perché io stesso non saprei come valutarlo, ma diverso senz’altro. Al netto di questo, però, voglio ribadire con forza una cosa: si gioca in una squadra, si indossa una maglia, si corre per un team e ci si attiene con convinzione e col massimo impegno alle tattiche del direttore sportivo, in questo caso del direttore del giornale. Anche perché, come ho detto poco fa, io posso pensare quello che voglio ma poi manca la controprova dell’esperienza e del giudizio dei lettori.
Ci sono state altre esperienze giornalistiche prima di Bicisport? Nel frattempo hai instaurato altre collaborazioni?
No. Prima di entrare in Bicisport studiavo ingegneria e pedalavo. Dal momento dell’ingresso in Bicisport, ho sempre avuto un contratto di esclusiva, quindi qualunque altro progetto deve essere autorizzato. Ho portato avanti altri progetti ma sempre in ambito ciclistico: penso ai DVD su Pantani o quelli sui cent’anni del Giro d’Italia, realizzati in entrambi i casi con La Gazzetta dello Sport; penso al libro con Tonina Pantani, prodotto con Mondadori. La mia vita è nel ciclismo e tutto è sempre ruotato attorno al ciclismo.
Hai rimpianti di qualsiasi genere?
Pochi mesi prima della mia nomina a caporedattore a Bicisport, credo fosse il 2002, mi chiamò l’allora direttore di Ciclismo, un mensile. Mi propose di fare il caporedattore da loro spostandomi a Milano. Io onestamente ci ho pensato parecchio: qui era un periodo interlocutorio, mi piaceva l’idea di lavorare altrove e di spostarmi a Milano. Quando si parla di Roma bisogna ricordarsi del sacrificio chilometrico che comporta seguire le corse e conoscere i corridori. Non hai la possibilità di incontrarli, sono in pochi ad allenarsi da queste parti. Ci pensai parecchio. Quel mensile non mi piaceva molto, così chiesi se ci fosse la possibilità di metterci mano. Mi fu fatto capire che la formula era quella, così decisi di respingere la proposta. Dopo poco divenni caporedattore di Bicisport. Vista però la fine che ha fatto Ciclismo, devo dire che tutto sommato sto bene qui.

Mi hai detto che ti appartiene molto una citazione di Ryszard Kapuściński, da Autoritratto di un reporter: “Credo che per fare del buon giornalismo si debba innanzitutto essere uomini buoni. I cattivi non possono essere buoni giornalisti. Solo l’uomo buono cerca di comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie. E di diventare subito, fin dal primo momento, una parte del loro destino”. Come applichi queste parole nel tuo lavoro quotidiano?
È la mia regola di vita fondamentale. Pochi giorni fa sono stato a casa di Samuele Battistella. I corridori ti aprono casa, ti fanno entrare, ti mostrano chi sono, ti raccontano le loro storie; condividono tutto, storie e ambizioni, e l’unico motivo per cui lo fanno, al di là del fatto che arriva l’inviato di Bicisport, è perché riconoscono in te un’umanità di fondo. Potrebbero fermarsi alla facciata, in fondo. Se non ci fosse quell’umanità, ti racconterebbero il minimo sindacale. Lasciamo stare le vittorie: quelle sono figlie di tutti e tutti sono bravi a raccontarle.
Riuscire a parlare con un corridore in difficoltà, farlo aprire, accorgersi che si apre e magari segue il tuo consiglio, che ti racconta cose che magari non racconterebbe in giro: questo significa entrare in una dimensione di umiltà e di affetto che va oltre il rapporto professionale. Io vado fiero della fiducia che hanno in me i corridori. Confesso che può essere capitato di fare qualche passo falso: a volte devi scrivere a prescindere. Ma credo che questa sia la regola fondamentale. Io conosco tanti colleghi che hanno un rapporto un po’ più cinico e distaccato con l’ambiente e con le persone e devo dire che poi si vede la resa sul giornale. Non riescono a raccogliere quello che è capitato a me per buona sorte o per atteggiamento.
Io mi ricordo che quando mi chiamò Tonina per propormi di scrivere il libro su Marco, mi disse: “Mi sono riletta le interviste che ha fatto mio figlio con te e se ti ha detto tutte quelle cose vuol dire che ti voleva davvero bene”. Forse è questo il mio più grande motivo d’orgoglio: essere riuscito ad entrare in sintonia con i gregari e con i campioni. Da questi ragazzi c’è solo da imparare: dal lato umano, da quello sportivo e da tanti altri. Quando ho letto quel libro di Kapuściński è stata una rivelazione. L’ho letto che ero un giornalista da un bel pezzo.
Hai detto “a volte capita di dover scrivere”. C’è qualcosa che hai scritto pur non volendo?
Se ho un rammaricom è legato a Vincenzo Nibali. Nel 2016, nella prima settimana di un Tour de France che stava andando malino, ci scambiammo una serie di messaggi. Io ebbi l’onestà di farli vedere al direttore e mi fu imposto di scriverci un pezzo. Commisi una leggerezza: non avvertii Vincenzo e lui se la prese tantissimo. Io credo che questo, umanamente parlando, sia l’unico passo falso che ho fatto in trent’anni. Ancora oggi mi brucia molto, ma ormai è successo.
Un giornalista non potrebbe rifiutarsi di inserire in un pezzo una confidenza o una confessione fatta fuori dall’intervista?
Fu fatto. Io dissi questa cosa; ci fu un momento di fortissima tensione e mi toccó scriverla. La cosa singolare è che poi Nibali quelle stesse cose me le disse quattro giorni dopo al Tour de France. Forse fu superfluo persino pubblicare quel pezzetto, che non aggiungeva nulla alla storia di Vincenzo. Alla fine sono relazioni tra adulti: nel momento in cui ti rendi conto che il messaggio personale rischia di finire scritto te lo tieni per te. Forse avrei dovuto valutare questa opzione fin dall’inizio. Adesso i messaggi personali restano nel telefonino, restano nell’animo, restano per le mie valutazioni individuali.

Arriviamo al rapporto con Marco Pantani, un rapporto che possiamo definire speciale.
Io ho iniziato nel 1992. Avevo letto di lui, ovviamente, del resto veniva da un terzo e un secondo posto al Giro d’Italia dei dilettanti. La prima volta che sono stato al Giro d’Italia dilettanti cercavo di studiare un po’ tutti e fra i tanti anche lui. Non so se per un fatto di simpatia, di età o che altro, ma cominciammo ad andare subito d’accordo. Soprattutto mi accorsi di una cosa: faceva esattamente quello che diceva. Alla partenza della tappa che andava da Piazza Bra a Verona e arrivava a Cavalese, gli chiesi se avrebbe attaccato e mi rispose: “Qualcosa si combina”. Attaccó e vinse.
Il giorno dopo c’era un tappone dolomitico. Alla partenza fece il solito sorrisetto, quello che faceva quando aveva in mente qualcosa. Attaccò anche lì e vinse, detronizzando Belli. Io e Marco avevamo quasi la stessa età: io sono del dicembre 1968, lui era del gennaio 1970. In lui vedevo proprio la sfrontatezza ed il coraggio. Forse era anche ciò che avrei voluto essere io nel mio lavoro. Lui in me vedeva la possibilità di confrontarsi su alcuni temi. A lui piaceva fare delle dichiarazioni ad effetto, all’inizio sembravano anche da sbruffone, e vedere come venivano recepite. Erano il suo termometro. Inoltre Marco era romagnolo ed anche Sergio Neri è romagnolo: un caso fortuito che ci ha portato spesso a casa sua. Ho imparato così a conoscere il papà, la mamma, la sorella. C’è stato un periodo in cui andavo a Cesenatico, a casa loro, un paio di volte al mese.
I servizi di Bicisport non sono mai banali, di quelli in cui ti siedi e parli. Lo seguivamo in allenamento, andavamo con lui in trattoria. Praticamente abbiamo condiviso un mondo ed insieme crescevamo entrambi. Io ho avuto un rapporto simile con tutti i ragazzi del 1970 anche per questioni anagrafiche. Sono ancora legatissimo a Michele Bartoli, forse quello che sento più spesso. Con Marco però si era stabilito un filo speciale. Questo ha reso ancor più fastidioso e doloroso tutto ciò che è avvenuto dopo.
Ci racconti un episodio legato a Marco Pantani?
Il ricordo personale più bello, secondo me, è legato a quella volta che ci vedemmo a Cortina. Più che altro è un episodio da ridere. Ero venuto a sapere che lui sarebbe andato in settimana bianca con gli amici in quell’inverno trascorso con le stampelle, quello tra il 1995 e il 1996. Lo contattai al telefono e mi diede appuntamento in questo albergo a Cortina. Salii con i suoi amici, ragazzi che conoscevo, passammo diverso tempo assieme e venne ora di pranzo. Bisognava salire al Rifugio Duca D’Aosta.
Mi ricordo che andai personalmente dall’uomo della seggiovia segnalando la presenza di un ragazzo con le stampelle che doveva salire. In un primo momento mi guardò scocciato, infastidito per il fatto di dover fermare l’impianto. Successivamente vide Marco e iniziò ad annunciare entusiasta la sua presenza attraverso gli altoparlanti. Arrivammo in cima con centinaia di persone dotate di macchine fotografiche ad attenderci. Era uno che smuoveva le folle a prescindere dallo scatto in bicicletta. Aveva un tale carisma. Forse questo è anche l’episodio più sciocco, ma ce ne sono stati davvero tanti di episodi che ci hanno accomunato.
Partendo dalla Colombia, ad esempio. Io lo prendevo in giro affermando che non sarebbe mai riuscito a scattare col quattordici sulla salita terribile di quel mondiale. Lui scattava col quattordici, scattava col tredici, lì aveva il dodici e scattó col dodici. Oppure quando andavamo a vedere le salite che magari si sarebbero fatte al Giro d’Italia dell’anno dopo. Facevamo a gara, macchina contro bicicletta, e nello scatto vinceva sempre lui.

Hai rimorsi o rimpianti personali per quanto riguarda la sua fine?
Assolutamente. Mi devo autodefinire un coglione. Io fui uno di quelli che abboccó a quello che diceva la sua manager. Quando Marco fu definito introvabile io smisi di cercarlo. Che errore! Nel frattempo non fui mai inviato formalmente per fare un pezzo su Pantani, per cui ho proprio il rimorso di non aver detto: “Chi se ne frega di Bicisport! Ci vado lo stesso!”. Probabilmente non lo avrei trovato, non lo so. Ma non avrei dovuto smettere di cercarlo. Mi piacerebbe pensare: ci ho provato, le ho fatte tutte, è andata così perché doveva andare così.
Credo però che questo sia il rimorso di tutti. Da un certo punto in poi abbiamo smesso di cercarlo: in parte convinti del fatto che si sarebbe rialzato perché si era sempre rialzato, in parte perché quando voleva sparire spariva per davvero. Sta di fatto che tanti hanno rinunciato a cercarlo. Io mi ricordo il Giro d’Italia 2003. Marco concluse bene quel Giro; era da tempo che non si riusciva ad avvicinarlo più di tanto ed io a fine corsa gli feci una battuta. “Tra una settimana si viene a casa tua. Facciamo una bella intervista come una volta”. Mi rispose convinto: “Sì, andiamo. Vi aspetto”. Mi sembrava quasi un sogno. Chiesi in redazione di andare, temporeggiammo per diverso tempo. Poi purtroppo uscì la notizia che non sarebbe andato al Tour e cominció la discesa finale.
Sarebbe cambiato qualcosa se fossi andato a fare l’intervista a casa sua? Non lo so. Avrei avuto qualcosa in più da raccontare, perché non sarebbe stato sicuramente un incontro banale. C’era tanta sofferenza in quel ragazzo. Anche nei momenti in cui era nel baratro e cambiava numero di telefono, mi mandava il numero nuovo. Credo mi stimasse. Sì, forse si poteva fare qualcosa in più tra il Giro d’Italia del 2003 e i mesi successivi.
Credi sia corretto dire che nei confronti di Marco Pantani sia mancata un po’ di comprensione?
No, io non la vedo così. Chi gli voleva bene gli ha sempre offerto comprensione. Da parte di coloro che gli volevano bene la comprensione è sempre stata garantita, non l’ha mai persa. Io credo che da un certo punto in poi sia diventato comodo trattarlo com’è stato trattato. Non so come finirà la questione del complotto. Secondo me qualcosa legato alle scommesse c’è stato, ma il vero complotto nei confronti di Marco Pantani è stato il modo in cui quasi tutta la stampa, tranne due eccezioni, abbia trattato le sue vicende sportive.
Sapevamo tutti che quel test era in parte inattendibile. Sapevamo tutti che al Giro del Trentino i ragazzi della Bardiani, che ai tempi non si chiamava Bardiani, avevano avuto dei test sfasati. Per quale motivo all’atleta più rappresentativo d’Italia – non del ciclismo, ma dello sport italiano – non è stato concesso il beneficio del dubbio? Lui è stato condannato dal giorno dopo. Ne parlavo giusto l’altro giorno al telefono con un amico, perché adesso Le Iene sono tornate su questo fatto. C’erano troppi interessi di palazzo per cui Pantani doveva finire in quel modo lì.
Magari avranno anche pensato: “Che vuoi che sia un ematocrito alto? Fra quindici giorni torna”. Non hanno considerato l’onestà intellettuale e l’orgoglio del personaggio. Un atleta che, nel pieno dello sforzo sulla Marmolada, pensa ai suoi tifosi che lo aspettano dalla notte prima, per una cosa del genere non esce più di casa. E così è stato.
Il complotto fu quello che successe sui giornali del giorno dopo. Oggi come oggi, se venissero fuori dei problemi simili per un calciatore famoso, non sarebbero tutti così categorici. È singolare, veramente singolare, che nel momento in cui a Torino aprivano il processo per l’ematocrito di Pantani nell’incidente della Milano-Torino, lo stesso tribunale aveva in mano il processo Juventus con lo stesso tipo di imputazione. Il caso Pantani fu mandato via da lì, perché con Pantani bisognava continuare su una certa linea. Non sono ancora in grado di dire perché, forse non lo sarò mai, ma non è che sia mancata l’umanità. C’è stato tutto il cinismo necessario per fare quello che è stato fatto e che, secondo me, qualcuno aveva ordinato di fare.

Hai citato “Le Iene”: noi ci siamo espressi con un editoriale su questa decisione, esprimendo totale dissenso rispetto a un certo modo di fare informazione, attento solamente alla riscossione di ascolti e consensi. Qual è il tuo parere in proposito?
Innanzitutto penso che dalle varie trasmissioni de Le Iene su questo caso non siano emersi elementi di novità tali da cambiare il corso della storia. Se c’è una cosa che mi dispiace tantissimo, è che io stesso feci un pezzo sulle riprese della scientifica in quella camera di Rimini: fu messo nella parte finale del giornale e confinato a una pagina, nella rubrica “Primo Piano”. Quello che stanno raccontando Le Iene da tre anni a questa parte, io lo avevo scritto sei o sette anni fa. Non hanno apportato nulla di nuovo.
Mi ricordo benissimo il momento in cui si inizió a parlare di mostrare le immagini di Marco in televisione. Tonina all’inizio era contraria, è stata convinta solo successivamente del fatto che quello fosse l’unico modo per far venire la pelle d’oca alla gente, l’unica strada da percorrere per provocare un’indignazione collettiva. Da questo punto di vista ci sono somiglianze con il caso Cucchi: se non avessimo visto il viso massacrato di Cucchi, e la sorella non avesse continuato come ha fatto, forse non saremmo arrivati alle condanne. Se proprio devo vedere una nota positiva in questa scelta, potrebbe essere questa, solo questa. Il fatto è che nel caso Cucchi c’erano tutti gli attori coinvolti nella vicenda: c’erano i carabinieri, c’erano le altre persone. Nel caso di Marco, l’inchiesta è stata condotta malissimo: l’albergo è stato ristrutturato, le impronte non sono state prese, per cui o viene fuori che qualcuno confessa oppure dubito che sia un caso, quello della sua morte, che possa essere chiarito mostrando il suo corpo senza vita.
Credo anch’io che sia stata una trasmissione che ha fatto degli ottimi ascolti anche perché mostrava queste immagini. Sono sicurissimo che fra coloro che l’hanno seguita ci saranno stati anche tutti i tifosi di Marco. Io non c’ero e non l’ho vista. Ho letto però le reazioni il giorno seguente: quasi tutti indignati per ciò che hanno visto ma erano tutti lì a guardare, quella sera. Alla fine la televisione commerciale vuole gli ascolti per inserirci la pubblicità. Il meccanismo è quello. Perverso quanto si vuole, ma è così che funziona.
Ci sono stati altri atleti che ti hanno toccato umanamente, oltre a Pantani?
Alberto Contador perché ha lo stesso spirito di Marco, perché ha la stessa voglia di non accettare limiti e di non porseli. Per la capacità di vedere una strada per l’attacco anche dove gli altri si rassegnavano a stare seduti. Poi Giovanni Visconti, perché la sua è una storia di lotte continue per far vedere un talento che c’è, limpidissimo, ma che per un motivo o per l’altro resta sempre sotto. Con Giovanni scriverei volentieri un libro sulla sua storia: ne abbiamo parlato, chissà che un giorno non si faccia. Vincenzo Nibali, perché per me è classe pura, perché ha dentro lo spirito del Pirata, che poi è lo stesso di Contador. Prova gusto nel non fermarsi mai di fronte a quello che è stato già scritto.
E poi, sarà impopolare ma lo dico, Lance Armstrong. Perché comunque, al netto di quello che può essere stato – scorretto, violento, arrogante, prepotente e tutto quello che vogliamo aggiungere, senza dimenticare quanto detto contro Marco, perché probabilmente dietro i mancati inviti di Pantani al Tour de France c’era la Nike – recuperare da un tumore e fare quello che ha fatto lui non è assolutamente banale. Forse ho questa sensibilità anche perché mio padre aveva un tumore. Mi rendo conto che lo sporco abbia coperto tutto. Ma ripeto: non è una storia banale, quella di Armstrong.

Possiamo fare un discorso analogo per quanto riguarda i tuoi colleghi? Colleghi che ti hanno insegnato o continuano a insegnarti qualcosa di prezioso?
Sai, io mi sento sempre l’ultima ruota del carro. Ho sempre avuto, e continuo ad avere, i piedi molto saldi per terra e se mi fanno un complimento arrossisco tremendamente. Ho sempre imparato e continuo a imparare qualcosa da ciascuno. Per dirti, Pier Bergonzi quand’era inviato alle corse era “l’amico dei corridori”: per me era un obbiettivo molto bello arrivare a quel livello di confidenza. Magari ci sono riuscito, magari no. Gianni Mura mi piaceva. Più prima di adesso, sinceramente. Resta sicuramente un maestro, ma prima era più dinamico. Il mio modo di raccontare è molto ispirato ai giornalisti di una volta. Per me è sempre stata un’esperienza bellissima leggere Rino Negri, ad esempio. Il suo modo di raccontare mi ha sempre affascinato.
Ovviamente ad oggi bisogna mediare quella tipologia di narrazione con la modernità. Lo stesso Sergio Neri mi ha sempre colpito sin da quando lo leggevo da ragazzino. Cerco di imparare da tutti ma, secondo me, sono i giornalisti del passato che hanno reso il ciclismo epico. Il ciclismo ha bisogno di non perdere la propria epicità. Non sono molto d’accordo con il mio direttore che avversa totalmente tutto ciò che è tecnologia. Mi rendo conto, però, che il tentativo di ridurre il ciclismo a qualcosa di troppo schematico lo priva di quell’aspetto epico di cui ha bisogno.
Parliamo di Froome. Un atleta che corre in una squadra che è per eccellenza votata alla tecnologia, un team che fa dei progressi tecnologici il proprio fiore all’occhiello, è entrato veramente nel cuore della gente con la tappa del Finestre. Poi magari quell’attacco lo ha fatto controllando i dati sul computer: però lo ha fatto. Il ciclismo ha bisogno di questa gente qui. Di gente che faccia correre le persone sulle strade. L’attacco di Marco Pantani a Morzine nel 2000, quello che poi si concluse con il suo ritiro dal Tour de France, fece fermare gli uffici. Ed erano già un paio di anni che Marco non era quello dei tempi d’oro. Il racconto giornalistico di una volta ti permetteva di chiudere gli occhi ed immaginarti la scena. A me piace chi, mentre leggo o dopo aver letto, mi consente di chiudere gli occhi ed immaginarmi la scena. È quello il giornalismo che mi piacerebbe saper fare e che tento di portare avanti. Il racconto della televisione c’è, ma ciò che vedi non è ciò che senti. Tante volte, nello scrivere una scena che hai già visto, riesci a metterci un sentimento che fa la differenza.
Molti giornalisti evidenziano come il rapporto tra stampa e corridori sia sempre più difficile da instaurare, finendo per risultare innaturale. Qual è la tua idea in proposito?
Sinceramente non sono molto d’accordo. Il cambiamento c’è sicuramente stato, per carità. Gli addetti stampa non sempre agevolano i contatti, è vero. Però molto dipende anche dal rapporto che il giornalista ha con il corridore. È chiaro che se parliamo di Froome, ad esempio, i contatti possono essere più complessi, ma è straniero e non c’è nemmeno chissà quale confidenza per cui io possa andare in camera di albergo, bussare, chiedere di entrare e mettermi a fare domande. Se parliamo dei nostri atleti o degli atleti con cui comunque si può avere un rapporto, io credo che le cose non siano cambiate più di tanto.
Se la tua confidenza è limitata alla partenza e all’arrivo, ci sta che tu debba sempre passare dall’addetto stampa. Ma se il rapporto c’è anche fuori, se sei stato a casa sua, se conosci la famiglia, se ti riconosce una qualche stima, tu fai una chiacchierata in albergo anche con un corridore che sta correndo il Giro d’Italia o il Tour de France. Il problema è un altro, semmai. Un mensile ha tempi più diluiti, un quotidiano ha tempi più stretti. Ad oggi, con le corse che tendenzialmente finiscono tardi, con le interviste di rito, con il protocollo che è lunghissimo, il giornalista ha a disposizione mezz’ora per fare tutto.
Io mi ricordo, per esempio, la tappa di Aprica al Giro d’Italia del 1994, quella vinta da Pantani. Io ero in camera sua mentre Pregnolato gli faceva i massaggi; gli altri erano fuori. Quando uscii, mi guardarono con odio. Qualcuno fece anche battute sul fatto che stando nelle camere chissà cosa vedevo. La difficoltà di superare certi limiti per chi non è in buoni rapporti con l’atleta c’è sempre stata. Forse oggi sono difficoltà amplificate dai tempi stretti. Se c’è fiducia, i dieci minuti in albergo te li danno lo stesso. Chiaro che non te ne fai niente, se quando ti danno quei dieci minuti tu devi aver già chiuso da due ore. Però sarebbe bene esserci comunque, perché i dieci minuti di stasera saranno utili per il pezzo che andrai a scrivere domani.

Una parentesi molto bella degli ultimi anni a cui tieni molto è la “Noi con Voi”.
A monte: io ho seguito e seguo ancora un cammino scout. Io sono un capo scout. Ho cominciato a otto anni. Ci viene insegnato, e insegniamo a nostra volta, che se lasciamo il mondo un poco migliore di come lo abbiamo trovato siamo dei buoni cittadini. Io mi occupo molto di sport. Mi ricordo che una volta una vecchietta, amica di mia madre, mi disse: “Mi piacciono i tuoi articoli, perché dentro non c’è soltanto la cronaca ma anche l’ambiente e le varie problematiche che lo riguardano”. Probabilmente è qualcosa che, se capita, capita involontariamente, oppure fa parte della mia sensibilità.
Quando c’è stato il terremoto, io cercavo un modo per fare qualcosa di utile per il mio territorio. Io sono di Ascoli Piceno. Il terremoto del 2016 ha raso al suolo i posti della mia infanzia e adolescenza, in cui mi allenavo in bicicletta e facevo tutte le altre cose che fa un ragazzo di quell’età. La possibilità, tramite le conoscenze che ho nel ciclismo, di fare qualcosa di utile per la mia zona, mi è sembrata una bella cosa, in parte un atto dovuto ed in parte anche un motivo di orgoglio personale. Devo dire che qualcuno che ha aderito l’ho trovato.
Certo, mi sarebbe piaciuto avere risposte più numerose da parte di certi atleti, ma mi rendo anche conto che un evento di fine stagione, dopo il Giro di Lombardia, sia veramente l’ultima cosa di cui hanno bisogno. Ho trovato parecchi amici corridori che sono venuti e parecchia gente che c’è stata. Forse potrebbe anche essere un modo di mettersi l’anima in pace per dire “ho fatto qualcosa”. Però è bello che la gente si sia affezionata e all’arrivo di una edizione ti venga a chiedere di quella dopo. Vuol dire che un segno l’hai lasciato e questo mi fa proprio piacere.
La volontà di esserci, di presenziare, di fare qualcosa.
Certo. Ma anche di dare fattivamente una mano a chi non ha più niente. Io ogni tanto ci penso: “Come farei se la mia casa fosse tutta sbriciolata per terra e tutte le mie cose non ci fossero più?”. Vero che mia madre insegnava che le cose si sostituiscono e gli affetti no, però non avere più nulla è bruttissimo. Devi affrontare una vita ripartendo da zero e parliamo di bambini e di anziani, perché chi è potuto scappare da lì in mezzo se n’è andato. Adesso, per esempio, ragionavamo sul prossimo anno.
Fino ad ora si è chiamata “Pedalata di solidarietà”. Magari questo concetto di solidarietà può essere aggiustato. Dopo quattro anni non c’è più un’urgenza. Non serve neanche più comprare le scarpe da tennis a chi deve fare sport. Si può cambiare tiro. Il rischio è che poi passi per assistenzialismo e non mi piace. Non voglio che passi per un’iniziativa che fa elemosina. Però è bello esserci ed è bello dare il proprio contributo per far stare bene anche soltanto dieci persone. Rimanere davanti alla televisione a guardare e commentare da lontano, giudicando le iniziative altrui, è uguale a non far nulla. Meglio provarci che stare a casa. Rientra sempre in quell’idea di bontà di Kapuściński di cui parlavamo prima: sono entrato nelle case di queste persone, ho visto come stanno e quello che si può fare va fatto. È un obbligo da parte di chi sta meglio verso chi non ha più nulla.

Arriviamo a un punto dolente: la sicurezza stradale. In Italia è sempre più un problema: crescono le vittime sulle strade, c’è un impegno sempre maggiore di Marco Scarponi e della Fondazione Michele Scarponi, ma sembra non cambiare nulla. In tutto ciò l’impressione è che il mondo dei professionisti non abbia ancora preso dovutamente a cuore la questione. Forse, se venissero lanciati messaggi decisi da campioni, idoli indiscussi delle persone, qualche condotta potrebbe essere stigmatizzata con maggiore decisione. Qual è il punto di vista Enzo Vicennati?
Parto dal primo punto. Io sono fiero di essere italiano, ma onestamente a volte non sono fiero degli italiani. Io non riesco a capire per quale motivo da noi ci sia proprio la tendenza spontanea e reiterata a non rispettare le regole. Se si va a guardare la maggior parte degli incidenti stradali, deriva dall’alta velocità e dalla distrazione dell’automobilista o del camionista che travolge il pedone o il ciclista. Si guardano i messaggi, si guarda il video e si continua a guardare il cellulare. È incredibile: una volta gli auricolari dovevi comprarteli, ora te li regalano. E si continua a telefonare con il cellulare in mano. Si superano i limiti di velocità. Io penso che ci sia veramente da rifondare un Paese. Poi vai all’estero e, probabilmente per paura che ti multino, rispetti le regole e sei completamente ligio. Arrivi qui e ti dimentichi di tutto. C’è qualcosa che non funziona. Non è possibile che non si sensibilizzino i ragazzi che prendono la patente sulla presenza delle biciclette, sul fatto che abbiano lo stesso diritto di precedenza e via dicendo. E non è possibile che ancora oggi si continuino a fare tutte le porcate che si vogliono con il cellulare in mano, senza che si sia inventato un sistema di repressione per questo tipo di condotte.
A ciò aggiungi che soprattutto dal centro Italia in giù lo stato delle strade è penoso. Io vado in bicicletta e anche in macchina a Roma e tante volte mi suonano di stare sulla destra. Sulla destra, però, ci sono delle buche in cui loro per primi con la macchina non mettono le ruote perché spaccherebbero le gomme. Da una parte c’è lo stato tragico delle strade, dall’altro ci sono arroganza e incapacità di pazientare. Marco Scarponi, nel docufilm Gambe, mi ha chiesto di chi è la strada. Io ho detto e ripeto che la strada è di chiunque abbia voglia di condividerla con gli altri. Qui manca proprio il concetto di condivisione. Da noi sembra che la strada sia di chi va più veloce e di chi ha il paraurti più alto. Questo su un fronte. Sul fronte dei corridori, il problema su queste cose si è sempre posto. Quando c’erano moltissimi casi di doping, si diceva che mancasse la coscienza sociale di fare un fronte compatto per combattere contro questa criminalizzazione del ciclismo.
Il corridore, purtroppo, vive nella sua bolla che dura da quando passa professionista, forse anche un poco prima, fino a quando non smette di correre. Quando smette di correre, si accorge di che vita privilegiata ha avuto. Penso anche io che se nascesse una campagna promozionale che ha come attori i campioni più grandi qualcuno sarebbe sensibilizzato. Il punto è: chi? I tifosi di ciclismo sono gli stessi, e forse gli unici, che queste cose già le sanno. Quindi sì, potrebbe servire, ma dovrebbe essere una campagna promozionale che coinvolge il campione di ciclismo, il campione del calcio, il campione del tennis. I campioni. Allora forse sarebbe incisiva.
Io però, pensando alla gente che incontro quotidianamente a Roma, mi chiedo: la gente andrebbe più piano se a chiederglielo fossero Nibali, Hamilton o Nadal? Io temo che per come è fatto oggi l’italiano, l’unica cosa che serve siano multe da far pagare e sanzioni vere. Sembra brutto, perché sembra che io invochi uno stato di polizia. Però qui o si risolve la faccenda o non ne usciamo. Ne parlavo con Marco Scarponi. Si parla tanto di femminicidio, e lo reputo giustissimo, ci mancherebbe. In Italia, non vorrei sbagliarmi, muore una donna ogni sessantaquattro ore e un ciclista ogni trentacinque. Però non se ne parla. Non se ne parla nei telegiornali. Perché? Non so darmi una risposta. Mi viene da pensare che l’industria dell’auto, che tanto ha fatto per la sicurezza di chi guida la macchina, non abbia interesse a far capire che quelle macchine possono essere anche armi mortali. Non so. Magari è solo dietrologia. Sicuramente se vai contro un muro con una macchina moderna non ti ammazzi come una volta, ma se vai contro un ciclista lui muore e tu dentro non ti fai neanche un graffio.
I professionisti vivono una dimensione a parte e tra l’altro sono fra le prime vittime di quello che succede, perché Samuele Manfredi era un corridore, Marina Romoli era un corridore, Luca Panichi era un corridore. Ne sono successe di tutti i colori anche a loro. Purtroppo non riescono ad avere la consapevolezza che tutti assieme potrebbero dare un messaggio di un certo tipo. Ripeto: o il problema esce dalla sfera ristretta dei ciclisti e investe tutta la popolazione a partire dalla scuola guida e dalla pubblicità progresso che viene fatta su tutto meno che sulla sicurezza stradale, oppure rimaniamo a cantarcela fra noi. Possiamo farlo ad oltranza, ma non risolviamo nulla. Il film di Marco ha un senso se entra nelle scuole, non so se mi spiego.
Per Cicloturismo (una delle riviste mensili della Compagnia Editoriale, n.d.r) ti occupi anche del mondo amatoriale.
Diciamo che me ne occupo poco, in proporzione a quanto faccio per Bicisport. La bicicletta, per fortuna, ormai è diventata un mezzo per fare sport, molto diffuso, apprezzato e stimato da sempre più persone. Non sono molto favorevole all’e-bike, però mi rendo conto che anche grazie ad essa stanno arrivando al ciclismo un sacco di forze nuove. Io credo la bicicletta sia un bellissimo modo di mettersi alla prova con se stessi. Non mi piace la granfondo agonistica, non mi piace che esista un campione del mondo delle granfondo, non mi piace che ci sia il granfondista trovato positivo che scappa al controllo antidoping. Mi sembra veramente grottesco e triste.
Mi piace molto la parte dei viaggi in bicicletta. Credo che in Italia si possa e si debba fare ancora molto per potenziare questa forma di turismo, che porta già milioni di persone ogni anno. Le ciclovie sono una bellissima cosa, ma bellissime sono anche le stradine secondarie di cui siamo pieni e che permettono veramente di girare l’Italia in sicurezza, scoprendo degli scorci del paese che vedi solo in bicicletta. Io voglio sperare che la bicicletta salverà il mondo. È proprio un auspicio, ci credo tanto. Mi piacerebbe che i miei figli potessero andare a scuola in bicicletta: adesso a Roma non è possibile. Mi piacerebbe anche molto che si tornasse a vivere svuotando un poco le città da questo loro essere elefantiache. Mi piacerebbe che si tornasse a una vita più a misura d’uomo. La bicicletta sarebbe davvero una mano santa.
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