Al campionato del mondo di Lisbona si consuma una vicenda grottesca.
Il campionato del mondo dello Yorkshire ha celebrato una verità inattaccabile: quando la nazionale italiana viene allestita in maniera sensata da un commissario tecnico competente, lungimirante e in grado di appianare discussioni e manie di protagonismo, non ce n’è per nessuno. I nomi non importano, ormai lo sappiamo: eccezion fatta per Bettiol che si è sbloccato quest’anno, nessuno dei sette azzurri presenti può vantare una classica monumento, eppure la corsa di un giorno più importante e complicata della stagione è andata esattamente come volevano i nostri. “La squadra”, scrivono poi i giornali, con quell’articolo determinativo che dice tutto.
Tuttavia, non è sempre domenica nemmeno per i nostri colori. Ci può stare, intendiamoci: non sempre si può contare su un Martini, su un Ballerini o su un Cassani, così come non tutte le diatribe e gli eventi della corsa sono facilmente gestibili. Succede a tutte le nazionali, insomma. La storia del ciclismo italiano ne è piena: gli screzi tra Coppi e Bartali, le insofferenze di Gimondi e Motta, i battibecchi tra Moser e Saronni. Le incomprensioni tra Bartoli e Bettini, infine, che ci riportano indietro di una ventina d’anni, quando i due toscani si stavano passando il testimone e l’Italia si macchiava di alcuni errori macroscopici.

Il primo matura lungo il circuito di Plouay che nel 2000 assegna la maglia iridata. La vittima sacrificale, in questo caso, è Danilo Di Luca: è lui stesso insieme ad Alessandra Carati a ripercorrere quella giornata nel suo “Bestie da vittoria”. Di Luca entra nella prima fuga, così come voleva Fusi; nel giro di pochi chilometri, però, i fuggitivi si trovano a dover amministrare un vantaggio di nove minuti: il traguardo è lontano, ma forse il gruppo potrebbe pentirsene. “In mezzo a questi vinco senza problemi”, dice Di Luca all’ammiraglia italiana. Nonostante non abbia ancora venticinque anni e sia soltanto alla seconda stagione tra i professionisti, Di Luca può permettersi di ostentare una certa sicurezza: in due anni ha già vinto sette volte, conquistando una tappa ai Paesi Baschi e una al Giro d’Italia e sfiorando il Giro di Lombardia alla prima occasione buona – secondo nel 1999 dietro al solo Celestino.
Tuttavia, mano a mano che la gara prosegue e il drappello dei fuggitivi si assottiglia sempre di più, Di Luca intuisce che la situazione in gruppo non è delle più chiare: avvalendosi di alcuni teleschermi disseminati qua e là sul percorso, vede che il plotone è tirato prima dalla Polonia, che non ha un capitano in grado di fare la corsa, e poi dall’Italia stessa. “Nove minuti a cinquantacinque chilometri all’ora significa un minuto e sei secondi a chilometro: nove minuti sono otto chilometri di vantaggio, un’enormità.
Quale commissario tecnico permetterebbe mai a una squadra di mettersi a tirare con davanti un uomo veloce a nove minuti di vantaggio?”, riflette Di Luca nella sua biografia.
In volata vincerà Vainsteins, mentre Bartoli s’infurierà con Bettini e i compagni perché nessuno nel finale si è sacrificato per lui, il capitano dichiarato, quarto e ad un passo dalle medaglie. Di Luca parlerà di giochi di potere, di sponsor, di marchi e di costruttori i cui pareri pesano eccome nell’economia di un campionato del mondo. Un anno più tardi sarà Gilberto Simoni a fargli eco.

I fatti. Il circuito di Lisbona che ospita i campionati del mondo del 2001 è di difficile interpretazione. Come spesso succede al Mondiale, nessuno è in grado di prevedere un preciso andamento della corsa. “Non si capiva se fosse da volatona o da selezione”, ricordò Simoni in un’intervista concessa a “La Gazzetta dello Sport” nel 2010. “La nostra strategia era per un tipo di gara dura, che però non si è realizzata. L’Italia non è mai mancata nelle azioni più importanti, però poi la corsa si chiudeva. Tant’è che all’ultimo giro il gruppo era ancora compatto”.
È a questo punto che si consuma il misfatto. Ullrich prende in testa la salita che precede il traguardo e mette in fila il gruppo. Il ritmo è alto, ma non impossibile da sostenere. Simoni parte in contropiede e in un attimo fa il vuoto. D’altronde il 2001 è uno degli anni migliori della sua carriera, va come il vento: quarto al Giro del Trentino, quinto al Romandia con un successo di tappa, primo al Giro d’Italia durante il quale ha conquistato una frazione entrando nei primi cinque in altre cinque occasioni; e ancora, secondo al Giro di Svizzera dietro ad Armstrong e vittorioso nella ventesima tappa della Vuelta. In quel momento è uno degli scalatori più forti del mondo.

“Non so quello che è successo dietro”, proseguì Simoni. “Io so quello che è successo davanti, dove c’ero soltanto io. Mi hanno detto che dietro hanno provato a chiudere, senza riuscirci, che poi in cima hanno rallentato. Poi Paolo Lanfranchi ha rimesso in moto il gruppo finché sono stato ripreso”. Paolo Lanfranchi, trentatré anni, è uno dei professionisti italiani più apprezzati. È un gregario completo e costante, capace se in giornata di togliersi delle belle soddisfazioni: al Giro d’Italia del 2000, ad esempio, vinse la tappa di Briançon, quella che ufficializzò il ritorno ad alti livelli di Marco Pantani; ma Lanfranchi è arrivato anche quattordicesimo al Tour de France, tredicesimo alla Vuelta, dodicesimo al Giro d’Italia, secondo al Giro di Lombardia del 1997.
Corre nella Mapei e nessuno, almeno in un primo momento, si capacita della sua azione: uno dei suoi connazionali più forti è da solo al comando della corsa e lui si sta dannando l’anima per riprenderlo.
“Ripreso all’ultimo chilometro”, concluse Simoni.
“Magari sarebbero bastati soltanto altri dieci secondi di vantaggio per arrivare al traguardo”. Nella volata dei migliori Freire anticipa Bettini e Hauptman. I giornali, alla spasmodica ricerca di stringhe e titoli efficaci, consacreranno quella giornata con quattro semplici parole: il tradimento di Lisbona.
I due prim’attori principali, Simoni e Lanfranchi, non concorderanno mai praticamente su niente. Simoni disse d’aver scollinato con venti secondi di vantaggio, per Lanfranchi non erano più di otto; Simoni affermò d’aver avvertito Mazzoleni prima di muoversi, Lanfranchi invece sostenne che nessuno sapeva; Simoni disse che era tutto chiaro, Lanfranchi s’era mosso così perché Freire e Bettini erano suoi compagni di squadra alla Mapei e dunque c’erano grossi interessi dietro; Lanfranchi, risentito, rivelò che la Mapei gli aveva già comunicato che non gli avrebbe proposto nessun rinnovo per il 2002, quindi tirare per loro a che pro?
Al Gran Galà Internazionale, tradizionale appuntamento che assegna gli oscar della stagione ciclistica, ci furono altri momenti di tensione. Sul palco, infatti, salirono alcuni dei protagonisti di quei frangenti: Simoni, Rebellin, Nardello, Bettini e Ballerini. A loro insaputa, gli organizzatori decisero di proiettare gli ultimi chilometri della corsa di Lisbona: gli animi, che non si erano ancora placati, si infiammarono di nuovo. Dal pubblico qualcuno gridò “venduti” all’indirizzo di Ballerini, Bettini e Nardello; Francesco Moser, vuoi per l’esperienza vuoi per la parentela di sangue che lo lega a Simoni, prese le sue difese a spada tratta dando dell’incapace tanto a Ballerini, subentrato da pochi mesi a Fusi, e a Bettini, il capitano riconosciuto che non ha saputo prendere la situazione in mano. Simoni e Bettini non si parlarono nemmeno; in molti sostennero che a muovere Lanfranchi furono proprio lui e Freire – si parlò anche di un “vai” urlato dallo spagnolo all’indirizzo del gregario azzurro.
Intervistato da Eugenio Capodacqua per Repubblica, Lanfranchi si disse affranto e pentito. “Ho sbagliato, lo dico e lo ripeto. Ho sbagliato e ho chiesto scusa a tutti. Provo un dispiacere immenso perché ho compromesso il lavoro di tutti. Anche il mio. Ma tra sbagliare e tradire ce ne passa: non ho mai parlato con Paolo Bettini”. E allora, com’è andata? “Sapevo che Simoni era scattato. Dopo l’ ultimo pezzo di salita, dove comincia il falsopiano prima della discesa, però non l’ho più visto: eravamo in tanti e guardavo poco avanti alla mia ruota. Ho pensato che fosse stato ripreso. E ho pensato di scattare per costringere gli avversari a inseguire e favorire il contropiede dei nostri”.
Poteva chiedere a qualche compagno, però. “Sono attimi, se scatti crei la sorpresa, se aspetti diventa tutto inutile. Ho avuto la sfortuna che ha vinto Freire, perché se avesse vinto Bettini, cioè l’ Italia, sono sicuro che avrei avuto solo elogi per l’azione di contenimento e di preparazione all’attacco azzurro”. E uno degli aspetti più grotteschi dell’intera vicenda è che probabilmente Lanfranchi ha ragione: se Bettini avesse vinto si sarebbe parlato d’altro. Il risultato pieno giustifica tutto.

Il rapporto tra Simoni e la nazionale guidata da Ballerini vive un altro momento di tensione alla vigilia dei campionati del mondo di Verona del 2004. È stata un’altra ottima annata per lo scalatore italiano: terzo al Giro del Trentino, terzo al Giro d’Italia con un successo di tappa, quinto al Giro dell’Appennino, diciassettesimo al Tour de France e nelle settimane che precedono l’appuntamento iridato conquista il Giro del Veneto e chiude al secondo posto il Giro del Lazio alle spalle di Flecha. Eppure Ballerini non lo convoca, evidentemente nella sua idea di Mondiale Simoni non rientra.
La corsa ha un esito amaro: Paolini è terzo e dunque migliore degli italiani dopo che Bettini, ancora una volta il capitano designato, ha sbattuto il ginocchio nella portiera dell’ammiraglia azzurra mentre entrambi si stavano fermando per risolvere una foratura. Un ritiro goffo e inaspettato che non fa guadagnare punti a Ballerini, che sul percorso aveva dovuto incassare persino le uova che i tifosi di Rebellin, in disaccordo con la scelta di lasciare a casa il loro idolo, avevano scagliato contro il mezzo italiano.

“Avevano detto che puntavano su Bettini e anche su Cunego e poi non avevano nemmeno fiducia che Damiano finisse la corsa. Se non hai questa fiducia allora gli dai il ruolo del jolly, non della seconda punta. Ai box pregavano che arrivasse in fondo. Cose da vergognarsi”, si sfoga Simoni su “la Repubblica” nei giorni successivi.
“Ballerini ha vinto un Mondiale da velocisti con Cipollini e Petacchi in squadra, i due sprinter più forti, e un’Olimpiade con Bettini, che in agosto vola. Parliamo di campioni che avrebbero vinto anche da soli. Dov’è la bravura? La bravura è mettere insieme, come ha fatto la Spagna, tante punte e farle andare d’accordo, non lasciarle a casa”. Non è mai stato diplomatico, Simoni. “La nazionale non viene fatta in Italia, viene fatta in Toscana. Alcuni corridori hanno sempre avuto il posto in nazionale stampato di diritto sulla maglia, invece io me lo sono sempre dovuto guadagnare con tutte le forze. Il commissario tecnico è Franco Ballerini, ma forse la nazionale la fa ancora Alfredo Martini”.
Nonostante siano passati diciotto anni, gli eventi del campionato del mondo di Lisbona continuano a far discutere e non potrebbe essere altrimenti: si tratta di una delle pagine più intriganti e grottesche della storia del ciclismo italiano.
Foto in evidenza: ©Cicloweb