Come nel 2018, anche quest’anno la Vuelta a España si preannuncia combattuta.
Speravamo di non doverlo riscrivere, o almeno non dopo appena quaranta giorni, ma tant’è: anche la Vuelta a España 2019, proprio com’è successo per il Tour de France, sarà caratterizzata tanto dalle presenze quanto dalle assenze. All’appello mancano diversi scalatori di primo e secondo piano: Froome, Bernal, Thomas, Nibali, Pinot, Porte, Mollema, Zakarin, Landa, Buchmann, Konrad, Daniel Martin, Bardet, i fratelli Yates – anche se a Simon non si poteva chiedere d’esserci: è vero che è la maglia rossa uscente, ma è altrettanto vero che ha già disputato Giro d’Italia e Tour de France. Questo non significa che la corsa sarà meno combattuta, anzi: anche l’edizione passata scivolò via nelle stesse condizioni, eppure fu più che godibile, incerta fino alla fine – il vantaggio di Simon Yates su Valverde era di appena venticinque secondi a tre tappe dalla fine, due se si esclude la volata conclusiva di Madrid.
Del percorso abbiamo già parlato: è duro, forse troppo; in più, è nervoso e imprevedibile, con strappi e muri disseminati qua e là, anche lontano dal traguardo, nella speranza che ogni metro d’asfalto possa far succedere qualcosa. La cronosquadre di apertura e la cronometro individuale che segue il primo giorno di riposo scaveranno dei solchi importanti, ma gli scalatori non possono davvero lamentarsi: hanno tanti chilometri di salita per provare a ribaltare la corsa. Tra corridori in cerca di riscatto, outsider desiderosi di approfittare della situazione e campioni pronti all’ennesima consacrazione, la lotta per la classifica generale della Vuelta a España 2019 si preannuncia estremamente interessante.
Nairo Quintana
Qual è il peso specifico delle responsabilità? Come si fa ad accettare la vittoria e la sconfitta in egual maniera? Com’è possibile gestire con leggerezza le aspettative che gli altri ripongono in noi? In queste tre domande – le cui risposte, se ci sono, verranno esaurite altrove – è racchiusa la carriera di Nairo Quintana. Da quando Dumoulin, Zakarin e Landa lo staccarono salendo verso Oropa al Giro d’Italia 2017, il colombiano ha perso quelle sicurezze che avevano contribuito a farlo diventare, insieme a Chris Froome, lo scalatore più forte del mondo. Negli ultimi due anni ha sbagliato quasi tutto: la preparazione, le tempistiche, gli obiettivi; i modi, i toni, le parole. Eppure, checché se ne dica, Nairo Quintana è ancora uno degli uomini più pericolosi quando si fa riferimento alla classifica generale di una grande corsa a tappe. Dall’estate del 2017 ha corso tre volte il Tour de France e una volta la Vuelta a España, vincendo due frazioni alla Grande Boucle e chiudendo le sue campagne tra l’ottavo e il dodicesimo posto. Se si esclude il ritiro alla Vuelta del 2014 e il trentaseiesimo posto alla Vuelta del 2012, Quintana non è mai sceso oltre la dodicesima posizione raccolta al Tour de France 2017. È stato due volte secondo alla Grande Boucle e una al Giro d’Italia, vincendo un’edizione della gara italiana e una di quella spagnola – era il 2016, l’ultimo successo di Quintana in un grande giro. La Movistar sarà una delle squadre di riferimento della prossima Vuelta, ma come abbiamo potuto constatare nelle ultime stagioni il colombiano sembra soffrire situazioni del genere – da un punto di vista prettamente sportivo l’assenza di Carapaz non dovrebbe dispiacergli molto. Da Quintana è lecito aspettarsi di tutto, nel bene e nel male; quest’anno, pur avendo avuto pochi picchi, ha messo insieme una stagione importante: quinto al Colombia 2.1 con un successo di tappa, secondo alla Parigi-Nizza, quarto alla Volta a Catalunya, nono al Delfinato e ottavo al Tour de France con una vittoria. Se questi fossero i risultati di tanti altri corridori, chissà cosa diremmo e scriveremmo.
Fabio Aru
A Fabio Aru non piacciono le situazioni semplici, e fin qui niente di nuovo. Dopo un anno e mezzo di strascicamenti e batoste, l’operazione all’arteria iliaca pare averlo rimesso a nuovo; e il problema nasce proprio qui: Aru ha passato un’ottima estate – faticosa ma produttiva – e se per caso dovesse andargli male la Vuelta si tirerebbe addosso le ire dei soliti noti, di chi lo reputa ora un bollito, ora un privilegiato. Nelle quattro corse estive disputate, non si può dire che Aru abbia brillato, sarebbe esagerato; tuttavia, ha lasciato intravedere ampi margini di miglioramento: al Tour de France ha dato prova di aver ritrovato quella caparbietà che lo ha tenuto aggrappato al gruppetto dei migliori in diverse occasioni, la stessa che nelle passate stagioni gli ha permesso di lottare e talvolta sconfiggere corridori come Froome, Contador, Quintana, Dumoulin, Rodríguez e Valverde. Per capire la bontà del calendario deciso con i direttori della UAE-Emirates dovremo aspettare il termine dell’annata: soltanto a quel punto potremo dire se aver partecipato a due grandi giri consecutivi sarà stato giusto oppure azzardato, se non fosse stato meglio dirottare Aru alla Vuelta fin dall’inizio e puntare su un rientro più graduale e sereno; però è vero anche il contrario: aver portato a termine un buon Tour de France dovrebbe avergli fornito una base atletica impareggiabile, senza dimenticare la relativa dose di fiducia. Immaginare Fabio Aru sul gradino più alto del podio di Madrid ci viene impossibile, ma un piazzamento tra i primi cinque appare già più realistico e rappresenterebbe il definitivo ritorno ad alti livelli di uno degli scalatori più promettenti ed efficienti della passata generazione. Nelle prove contro il tempo, né lui né la sua squadra sono particolarmente attrezzati, dunque è da preventivare un passivo importante. Se il terreno per rifarsi non gli mancherà, lo stesso non si può dire per quanto riguarda chi lo scorterà: Conti, dopo il ritiro dal Giro d’Italia, ha corso soltanto il Giro di Polonia; Sergio Henao ha subito un’involuzione impressionante, passando dal ruolo di outsider a quello di gregario – e nemmeno di primo piano, a dirla tutta; Pogačar è forte e prenderà il posto di Aru se questo dovesse saltare, ma non bisogna dimenticare che ha vent’anni ed è al primo grande giro della sua carriera; gli altri, ovvero Marcato, Molano, Gaviria e Troia, si concentreranno sui successi di tappa e sul tenere protetto Aru in pianura. Quando la strada salirà, dunque quando si deciderà la corsa, Aru potrebbe dover fare tutto da solo.
Jakob Fuglsang
Jakob Fuglsang e Miguel Ángel López, fino ad oggi, non avevano mai dovuto dividersi i gradi di capitano in una grande corsa a tappe. Poi è arrivata la Vuelta a España 2019 e l’Astana ha deciso di percorrere questa via nuova, senza dubbio suggestiva. Su Fuglsang, a dire la verità, c’è più scetticismo che fiducia: che abbia vissuto una primavera sontuosa, è risaputo e nessuno può negarlo; che Miguel Ángel López dia più garanzie sulle tre settimane, pare ovvio; che Fuglsang soffra i grandi giri, purtroppo per lui, è lapalissiano. Se gli stati d’animo contano ancora qualcosa, a rigor di logica il più affamato dovrebbero essere il colombiano: è uno degli scalatori più forti e costanti del gruppo, l’anno scorso chiuse la corsa spagnola al terzo posto e al Giro d’Italia di quest’anno è stato il bersaglio preferito della sfortuna – in certi momenti avrebbe potuto e dovuto gestirsi meglio, è vero, ma senza incidenti meccanici e tifosi invadenti sarebbe arrivato più in su del settimo posto effettivamente conquistato. Al contrario, Fuglsang è uscito malconcio dal Tour de France; malconcio in tutti i sensi: fisicamente, a causa di tutte le cadute nelle quali è rimasto coinvolto, ma anche moralmente, avendo alzato bandiera bianca nella sedicesima tappa, quando occupava ormai il nono posto della classifica generale a cinque minuti e mezzo da Julian Alaphilippe. Cinquanta giorni fa scrivevamo che Fuglsang era il favorito principale del Tour de France insieme a Egan Bernal, mentre adesso non ci sembrerebbe così strano ammettere che il danese probabilmente non vincerà mai un grande giro: se non è riuscito a lasciare il segno nemmeno nella miglior stagione della sua carriera, qualcosa vorrà dire. Evidentemente Fuglsang è un corridore adatto alle classiche e alle brevi corse a tappe che incontra diverse difficoltà – di tenuta e di concentrazione – nell’affrontare i grandi giri. Tuttavia, la presenza di Miguel Ángel López e la compattezza dell’Astana potrebbero giocare a suo favore: se, come sembra, il capitano designato sarà il colombiano, Fuglsang potrebbe muoversi da specchietto per le allodole, muovendosi quando il traguardo sarà ancora lontano per osservare le mosse degli altri capitani. Ma non è facile stabilire a monte chi possa rimanere ingannato dai riflessi d’uno specchio: a volte chi lo guarda, a volte chi lo muove.
Primož Roglič
La carriera di Primož Roglič, e anche l’opinione pubblica intorno alla sua figura, sono cambiate completamente in appena due stagioni. Fino a qualche anno fa era una sorta di feticcio, un corridore dal sicuro avvenire e con una storia pittoresca alle spalle; poi sono arrivate le prime vittorie, i primi risultati consistenti e il quarto posto al Tour de France 2018. Improvvisamente, fin dall’inizio dell’annata in corso, Roglič ha barattato quell’aura da silenziosa e inarrestabile promessa che stava scalando le gerarchie del ciclismo professionistico per una nuova, più meritevole ma più invisa ad una grossa fetta di pubblico: quella del fuoriclasse, del normalizzatore, del campione che straccia la concorrenza nelle prove contro il tempo e che ne tiene il ritmo, talvolta riuscendo persino a batterla, in salita. Al Giro d’Italia 2019 era arrivato dopo una primavera perfetta: le tre corse alle quali aveva partecipato – UAE Tour, Tirreno-Adriatico e Giro di Romandia – lo avevano visto salire sul gradino più alto del podio; oltre alle classifiche generali, si segnalavano cinque vittorie, quattro secondi e due terzi posti. I galloni di favorito della corsa rosa gli erano toccati dopo i forfait di Bernal e Dumoulin, ma nonostante tre settimane di altissimo livello – forte ma non irresistibile in salita, dominante nelle cronometro -, Roglič ha chiuso al terzo posto, dietro a Carapaz e Nibali. Qualche battibecco e una stampa italiana che non ha perso tempo nello schierarsi hanno contribuito a creare un’idea distorta dello sloveno; questo atteggiamento, allo stesso tempo, conferma il grado d’importanza – e di pericolosità, soprattutto – che Roglič ha raggiunto. L’aria intorno a lui è cambiata, facendosi più elettrizzante e rarefatta. La Jumbo-Visma, oltre ad essere una delle squadre più compatte e fornite della Vuelta a España 2019, è anche una di quelle che schiererà due capitani: oltre a Roglič, infatti, c’è anche Steven Kruijwsijk, che non avrà né la precocità né il talento dello sloveno, ma intanto un mese fa è arrivato terzo al Tour de France. Se la tenaglia che i due verosimilmente allestiranno andrà a buon fine, ci sono ottime chance che la Jumbo-Visma piazzi entrambi i capitani tra i primi cinque della generale. Le numeroso salite della Vuelta, tuttavia, rischiano di penalizzare Roglič – non uno scalatore puro, si sa – e di far traballare Kruijwsijk, reduce come detto da un Tour de France dispendioso. Considerando il livello raggiunto e la forza della squadra che li accompagna, i due hanno l’opportunità di conquistare quello che, per entrambi, sarebbe il primo grande giro in carriera: l’arrivo di Dumoulin previsto per il 2020 potrebbe complicare dannatamente i loro piani, dunque conviene muoversi in fretta.
Alejandro Valverde
La stagione in corso è una delle peggiori mai disputate da Alejandro Valverde: un’affermazione forte fino ad un certo punto, dato che viene interamente supportata dai numeri. Lo spagnolo è finito lontano dai migliori alla Amstel Gold Race, è stato undicesimo alla Freccia Vallone e si è ritirato alla Liegi-Bastogne-Liegi, il suo territorio preferito; nelle corse spagnole che aprono l’annata si è sempre piazzato, è vero, ma non ha mai vinto; a San Sebastián ha chiuso al decimo posto, perdendo la volata per la seconda piazza da ben nove corridori; le vittorie in stagione sono quattro: se si esclude il 2002, il suo primo anno tra i professionisti durante il quale non esultò mai, soltanto nel 2013 vinse così poco. Però c’è dell’altro: perché i numeri dicono tanto nel male, ma anche nel bene; perché spesso bisogna saper andare oltre, mettere insieme le tessere di un mosaico che non è mai così semplice come può apparire in un primo momento. Le quattro vittorie centrate da Valverde, ad esempio, sono indicative: nella terza tappa dell’UAE Tour, che arrivava in cima alla salita di Jebel Hafeet, ha anticipato Roglič, Gaudu, Buchmann, Daniel Martin e tanti altri, non degli sprovveduti; alla Route d’Occitanie, oltre a conquistare il primo arrivo in salita, si è portato a casa anche la classifica generale sopravanzando Sosa, Urán, Gallopin e Sivakov; il quarto e ultimo successo in ordine cronologico è relativo alla prova in linea dei campionati nazionali: non può indossare la maglia di campione spagnolo perché veste già quella di campione del mondo, e scusate se è poco. E poi c’è il settimo posto alla Milano-Sanremo, l’ottavo al Giro delle Fiandre – era uno dei debuttanti -, il decimo alla Volta a Catalunya e il nono al Tour de France, corso perlopiù in appoggio a Landa e Quintana. Infine, si potrebbe anche sottolineare che una delle stagioni peggiori di Valverde corrisponde anche all’anno in cui ha compiuto trentanove primavere – il doppio di quelle vissute finora da Evenepoel, per dire. Alejandro Valverde sarà sportivamente anziano, parzialmente appagato e meno brillante di un tempo, ma non è un corridore in disarmo; Quintana dà più garanzie sulle tre settimane, ma la classe dello spagnolo gli è inaccessibile. Valverde, tra l’altro, trova sempre il modo di esaltarsi alla Vuelta: lo scorso anno fu quinto e riuscì a conquistare anche due successi di tappa. Sembrava impossibile che un corridore così stagionato potesse vincere la prova in linea di una delle edizioni più dure dei campionati del mondo; invece andò come doveva andare, come voleva Valverde.
Rafał Majka
Rafał Majka non è diventato il corridore che sembrava poter diventare, e di questo dovremmo rammaricarci tutti: perché era un giovane che non aveva paura d’attaccare, che non faceva molti calcoli, che in salita andava davvero forte e che, soprattutto, sapeva reinventarsi se la corsa si era messa male e la classifica generale non era più un obiettivo perseguibile. Il bilancio che Majka avrebbe potuto tracciare al termine del 2016 era estremamente positivo; allora aveva ventisette anni, praticamente sulla soglia del lustro durante il quale solitamente un atleta dà il meglio di sé, eppure il suo palmarès era già ricco: tre tappe al Tour de France e due volte miglior scalatore della Grande Boucle, un’edizione del Giro di Polonia rafforzata da due successi parziali, la prova in linea dei campionati polacchi; e ancora, il terzo posto in quella delle Olimpiadi di Rio de Janeiro e al Giro di Lombardia 2013; senza dimenticare i piazzamenti nelle grandi corse a tappe: settimo al Giro d’Italia 2013, sesto nel 2014, quinto nel 2016, e anche terzo alla Vuelta 2013 – quest’ultimo è il miglior risultato conquistato da Majka al termine di un grande giro. Le ultime tre stagioni, tuttavia, non sono state negative: è vero, non ha confermato quanto realizzato nella prima parte di carriera né tantomeno è riuscito a fare quel salto di qualità che tutti si aspettavano, però non è scomparso dai radar. Ha collezionato una serie impressionante di piazzamenti, ad esempio: nel 2017 è stato decimo alla Liegi-Bastogne-Liegi, mentre lo scorso anno ha disputato un ottimo finale di stagione, chiudendo tredicesimo alla Vuelta e settimo al Lombardia. Alla Vuelta 2017, per dirne un’altra, vinse anche una tappa. Quel che ha perso in freschezza e intraprendenza, Majka sembra averlo guadagnato in costanza; è uno dei più pericolosi in un ipotetico gruppo di fuggitivi che si gioca la vittoria di giornata in una frazione d’alta montagna ed è ancora un cliente scomodo nelle brevi corse a tappe, che infatti conclude spesso e volentieri tra i primi dieci. L’annata fin qui disputata è da interpretare proprio in quest’ottica: settimo alla Volta a Catalunya, sesto al Tour of the Alps e al Giro d’Italia, nono al Giro di Polonia; non vince da due anni ma abita ancora ai piani alti, Rafał Majka. La BORA-hansgrohe è una delle migliori formazioni del 2019, anche se i compagni affiancati al polacco non sono irresistibili: Bennett, Archbold e Drucker faranno una corsa parallela, Poljański e Großschartner sono validi ma non eccezionali, dunque Majka dovrà contare perlopiù su Mühlberger e Formolo – le due alternative migliori nel caso in cui il polacco dovesse saltare. La Vuelta che potremmo aspettarci da Majka non dovrebbe differire poi molto dal Tour de France di Buchmann: una corsa parsimoniosa e attenta, per niente spettacolare, che però gli è valsa il quarto posto finale.
Steven Kruijswijk
Niente di più sbagliato pensare a uno Steven Kruijwsijk appagato dopo i risultati ottenuti al Tour. La prima volta nei primi tre in un grande giro sigilla una carriera importante nella quale, però, è mancato sempre l’acuto. Proprio da quel risultato l’olandese cerca la spinta verso un finale di stagione col botto, che potrebbe portare la vittoria finale sua o di un compagno di squadra. La Jumbo-Visma, in questa Vuelta, si presenta come una corazzata e ha tutto per salire sul podio con uno, o perché no, entrambi i capitani, sognando una serie di risultati mai visti da quelle parti – basti pensare ai piazzamenti di spessore al Giro e al Tour. Le carte in regola ci sono: Kruijswijk e Roglič formano una coppia affiatata e di livello; la concorrenza è buona ma non spietata e i gialloneri avranno diversi jolly in mano da giocarsi. La cronosquadre del primo giorno sorride a loro e potrebbe permettere ai propri uomini di rifilare secondi preziosi agli avversari. Una Vuelta dal percorso nervoso e montagnoso e senza un padrone certo proporrà ogni giorno nuovi scenari in cui Kruijwsijk, quarto lo scorso anno, potrebbe starci benissimo. Il fatto di aver ottenuto in carriera solo due vittorie – l’ultima cinque stagioni fa – solleva qualche dubbio: è più probabile, dunque, vederlo lottare per un successo di tappa, piuttosto che fare la formichina per un posto d’alta classifica come nel recente Tour de France. Anche se magari, a furia di vedere gli altri badare Roglič, stavolta ad approfittarne potrebbe essere proprio lui.
Miguel Ángel López
Lo aspettiamo perché il talento in salita c’è e l’età è dalla sua, anche se lui ha una condotta di gara che fa un po’ a pugni con il concetto di spettacolarità. Nonostante il soprannome – Superman – di super quest’anno c’è stata solo la prima parte di stagione: portando a casa Colombia 2.1 e Volta a Catalunya, si era indirizzato verso il Giro con i gradi del favorito. Miguel Ángel López alla fine è uscito in settima posizione dalla corsa rosa, con la maglia bianca e tanta delusione cucite addosso. Cercherà quindi di rialzarsi sulle strade di Spagna, che lo scorso anno lo videro al terzo posto finale alle spalle di Simon Yates ed Enric Mas – quest’anno assenti; viste le doti da scalatore, avrà tanto terreno dove poter fare la differenza. L’Astana, delusa anch’essa da Giro e Tour, presenta una squadra infarcita di spagnoli votati alla causa del colombiano e a quella di Jakob Fuglsang. L’apporto di due corridori come Cataldo e Boaro è sempre utile: sono due sicurezze su tutti i terreni e lo aiuteranno a ritrovare la via smarrita pochi mesi fa sulle strade del Giro d’Italia, tra incidenti meccanici e botte ai tifosi. Un parterre alla sua portata, quello della Vuelta, che potrebbe dargli l’occasione per far svoltare definitivamente la sua ancora giovane carriera.
Rigoberto Urán
Un altro colombiano che cerca di cambiare marcia in questo 2019: Rigoberto Urán. L’asso colombiano vuole ritrovare lo smalto e l’esplosività, parole sue, smarrite con l’età: gli anni passano e la giustizia del tempo è calata anche su di lui. Dopo aver visto i più giovani connazionali arrivare dove non lui è mai riuscito – leggasi vittorie tra Giro, Tour e Vuelta -, in questa edizione della gara a tappe spagnola Rigoberto Urán – non chiamatelo Ciccio, per favore – vorrà lasciare un segno in un’annata che lo ha visto chiudere al settimo posto il Tour de France, suo grande obiettivo a inizio stagione. L’Education First schiera al suo fianco una squadra davvero solida: Carthy e Van Garderen – tra i primi dieci della Vuelta nel 2017 – sono corridori capaci di andare forte in salita e anche provare un piazzamento in classifica generale, mentre Martínez e Higuita rappresentano il nuovo che avanza tra gli escarabajos che vestono la maglia rosa fluo del team americano. Urán, però, prima di lasciare il passo ai suoi compagni di squadra, avrebbe la ferma intenzione di migliorare il suo risultato di maggiore spessore ottenuto sulle strade spagnole: il settimo posto del 2018. Il terreno c’è e una starting list di livello buono, ma non eccelso, potrebbe aiutarlo nel suo compito.
Wout Poels
Il Team Ineos è l’ultima squadra ad annunciare gli otto per la Vuelta e la notizia è che lascia fuori tutta l’artiglieria pesante da classifica. Chris Froome non c’è per ovvi motivi; Egan Bernal pensa già al Giro 2020; Iván Ramiro Sosa, visto in grande spolvero alla Vuelta a Burgos, è troppo giovane per correre due grandi giri in un anno e lo stesso discorso vale per Pavel Sivakov. Su Geraint Thomas, invece, si dovrebbe fare una considerazione a parte a proposito del senso di correre così poco in una stagione; il primo pensiero che ci viene in mente è: dopo non aver ottenuto il risultato che si attendeva dal Tour, quale migliore occasione cercare la rivincita sulle strade spagnole? Ma invece di sognare un ciclismo che non c’è, parliamo in concreto di chi sarà il capitano della squadra: Wout Poels. Lo squadrone britannico regala all’olandese un biglietto che vale una carriera. Il trentunenne, infatti, dopo diverse stagioni passate a fare il gregario, ha la grande chance di migliorare il sesto posto della Vuelta 2017, ottenuto correndo proprio a fianco di Chris Froome in un’edizione dove tutto il Team Sky volava – ricordate quanto andava forte anche Moscon? Siamo a fine stagione e spesso questa corsa ci regala delle sorprese: Poels potrebbe rientrare benissimo in questa casistica. Con lui, a dividere i gradi di capitano, ci sarà Tao Geoghegan Hart, ma il giovane britannico deve ancora dimostrare di valere una classifica di spessore in una corsa a tappe di tre settimane.
Altri
La lista degli uomini che potrebbero fare classifica in questa Vuelta si allunga grazie alla presenza di molti outsider. Uno di questi, ad esempio, è Kelderman, che solo due stagioni fa lo sfiorò: quest’anno però i problemi fisici hanno azzerato i suoi risultati. I fratelli Herrada possono ambire a un posto nei primi venti, mentre quelli Izagirre correranno per i primi quindici, gregariato permettendo. Geoghegan Hart sarà la spalla di Poels e cerca di accumulare esperienza nelle tre settimane, mentre Meintjes, Latour e Brambilla la rivincita in una stagione parecchio difficile. Tra i giovani più interessanti, un occhio di riguardo lo meritano Pogačar, Martínez, Higuita, Barcelò ed Eg: per qualcuno di loro anche un piazzamento nei migliori dieci potrebbe non essere utopia. Se Chaves, capitano unico della Mitchelton-Scott, sulle strade spagnole ha vissuto alcuni fra i momenti migliori della sua carriera, Soler a suon di fughe da lontano potrebbe sorprendere e chissà, sognare un posto tra i migliori dieci. Se Lotto e CCC Team non avranno un vero uomo per la generale, la Quick Step si affiderà al giovane Knox, mentre la Bahrain lancerà Padun. Battitori liberi in casa Groupama – Morabito e Frankiny difficilmente potranno ambire all’alta classifica – e nelle file di Caja Rural e Burgos. Infine una menzione per altri due corridori italiani che potrebbero animare le frazioni di montagna: Conti, già vincitore di una tappa qui alla Vuelta, e Fabbro, all’esordio assoluto in una corsa di tre settimane.
Foto in evidenza: ©Emanuela Sartorio